Il nuovo Dune di Villeneuve dopo il passaggio veneziano non è ancora uscito nelle sale dello Stivale (a breve contiamo di potervi offrire la nostra recensione in anteprima, mentre per ora vedete il trailer qui sotto), ma intanto un positivo effetto l’ha già sortito: oltre ad aver riacceso l’interesse sulla fluviale saga letteraria di Frank Herbert & son, ha indotto Valmyn in collaborazione con Wanted Cinema a distribuire nei cinema italiani (dal 6 settembre) il bellissimo documentario di Frank Pravich che altrimenti mai vi sarebbe atterrato.
Parliamo naturalmente di Jodorowsky’s Dune, l’emozionante diario del più colossale, ambizioso e per ciò stesso inesorabile fallimento della storia del cinema: un documentario che si segue con la passione di un’avventura, quella dell’anima di un regista – il cileno Jodo – che concepisce la settima arte appunto come “pura arte”, come cammino iniziatico di apertura della mente (un po’ come quello del giovane Paul Atreides), come “trip psichedelico senza LSD” (parole sue), rievocato anche nelle parole dei colleghi registi Nicolas Winding Refn, Richard Stanley (Hardware, Il colore venuto dallo spazio) e del produttore di Star Wars Gary Kurtz.
Qui sotto il trailer del documentario.
Un viaggio della mente ma in nessun modo un’intrapresa commerciale. Quindi, senza speranza a Hollywood, di cui invece Jodo e il suo produttore francese Michel Seydoux hanno bisogno degli ingenti capitali indispensabili a portare su pellicola la monumentale opera (“di dieci, anche venti ore”, dice il regista) sceneggiata nell’abbagliante story board disegnato dal giovane Moebius (v. immagini ai lati) e, nelle intenzioni del “folle” Jodorowsky, interpretato da Salvador Dalì e Amanda Lear (allora giovanissima fidanzata del pittore), Orson Welles, Mick Jagger (nel ruolo del guerriero Feyd-Rautha Harkonnen disegnato qui sotto, che poi sarebbe andato a un’altra rockstar, Sting), David Carradine, Udo Kier.
Con astronavi disegnati dallo specialista inglese Chris Foss e i mostruosi vermoni affidati all’inquietante artista svizzero Hans Ruedi Giger (allora una scoperta di Dalì), gli effetti speciali di Dan O’Bannon (all’epoca appena scaricato da Carpenter dopo Dark Star), le musiche nientemeno che dei Pink Floyd (sgridati dal regista per ottenere la loro attenzione sul “film più importante della storia dell’umanità”), ma anche quelle dei francesi Magma (secondo Jodo, ogni pianeta del sistema doveva avere la propria musica).
La fine è nota (e poco prima che il docufilm di Pravich cominciasse a circolare in DVD internazionale e in rete, documentata anche sul Nocturno Dossier n. 121 del 2012, Loving the Alien. Guida alla saga fantahorror più terrificante della galassia, a cura di Manlio Gomarasca): il monumentale story board di Jodo/Moebius viene proposto a tutte le major, considerato un capolavoro ma inesorabilmente rifiutato a fronte del rischio di affidare capitali così ingenti a un regista intellettuale d’indiscusso valore ma ingestibile e poco affidabile per la realizzazione del blockbuster mondiale necessario a ripagare cotanti investimenti.
Jodo la prende comprensibilmente male all’inizio, ma è un saggio: capisce che ogni fallimento ha in sé il dna del superamento, quindi dà vita con Moebius (e poi Juan Giménez) alla non meno monumentale saga fumettistica de L’Incal e poi della Casta dei Meta-Baroni, assiste con una punta di maliziosa soddisfazione al successivo “fallimento” del Dune finalmente approdato al cinema per la regia (poi sconfessata) di David Lynch, a sua volta ingabbiato dalla produzione di De Laurentiis a realizzare qualcosa che sembrasse una “space opera mainstream” ma ancora non il capolavoro visionario che probabilmente il giovane regista americano aveva in mente come il suo precursore cileno (che peraltro lo stimava “l’unico che avrebbe potuto farlo”) che oggi, ottantaquattrenne al momento delle riprese dell’intervista di Pravich, mostra la conquistata saggezza di chi sa di aver dato comunque un grande contributo alla storia del cinema di fantascienza (e non solo) anche se con un’opera irrealizzata.
La parte più pazzesca del film di Pravich è infatti il dopo, in cui la regia ci giustappone esempi dei disegni di Moebius per lo story board di Dune accanto a scene di film successivi, talmente simili da non poter pensare che sia stato un caso: il libro era rimasto nel cassetto di tutte le major hollywoodiane, quindi non è stupefacente che intuizioni della geniale coppia siano filtrate nei duelli di Star Wars di Lucas, nelle soggettive di Terminator di Cameron, nelle apparizioni fantasmatiche dei Predatori dell’Arca Perduta di Spielberg o in altri titoli minori come Flash Gordon, fino alle minacciose montagne scolpite nel Prometheus di Ridley Scott.
Al cui epocale capostipite Alien peraltro diedero decisivi contributi proprio O’Bannon (col soggetto originale) e Giger (coll’indimenticabile, orroroso xenomorfo), “scoperti” da Jodo e indi “adottati” da Hollywood dopo il naufragio del cosmico progetto, se ne parla alle pagine 101-106 del mio FantaRock (con Ernesto Assante, Arcana, 2018).
Mai pubblicata neppure in forma di libro cartaceo, la fertilissima, profetica sceneggiatura Jodo/Moebius si connette infine anche all’imminente, attesissimo Dune di Villeneuve (di cui già è trapelato il progetto di una trilogia cinematografica per sviluppare compiutamente l’impianto narrativo di Herbert) attraverso la colonna sonora: infatti le solenni musiche di Hans Zimmer per il film in uscita comprendono anche un brano riarrangiato dei Pink Floyd ambìti da Jodo: è Eclipse, proprio da quel The Dark Side Of The Moon le cui session di registrazione volgevano alla fine al momento dell’incontro col visionario regista cileno).
A quanto pare, l’unica scoperta in cui non possiamo sperare, è che il momento favorisca anche la pubblicazione dell’agognata Director’s cut del Dune di David Lynch: il collega americano a quanto pare ha fatto sapere di non volere più avere a che fare col suo storico contributo alla space opera.
Mentre aspettiamo il film dell’anno, il documentario di Pravich è opera da vedere obbligatoriamente, non solo come viatico al reboot di uno dei registi più importanti della fantascienza del XXI secolo, ma come vibrante testimonianza di un artista “puro”, capace di credere nei propri sogni “larger than life” fino in fondo e senza compromessi. Quando ci confrontiamo scorati coi problemi dell’editoria attuale, con un cinema in difficoltà (e in Italia ormai quasi inesistente), coll’incomprensione di un pubblico pigro e conservatore, è a quest’esempio che ci dobbiamo abbeverare della “spezia” per continuare la lotta (non a caso qui a lato vedete le verminose sentinelle by RobertaG da un'urban picture mia, una recente Giger-germinazione).
Mario G