La Coscienza di Zeno di Italo Svevo fu pubblicato originariamente nel 1923: già il libro era un meta-testo, poiché si presentava come appunti del protagonista sulle sedute psicanalitiche col Dottor S. Ora, la drammaturgia sviluppata collettivamente (come da loro prassi) dalla compagnia Oyes si basa proprio sul 'primo secolo di classicità' del romanzo, immaginando che la performance teatrale si svolga nell'ambito di una mostra appunto celebrativa dei cent'anni dell'opera di Svevo: l'inizio è col botto, perché alcuni blackout elettrici sul palco (ma saranno stati reali?) ci inducono a partecipare volonterosamente all'improvvisazione degli attori che - mentre i tecnici sistemano l'inghippo - ci interrogano sui nostri ricordi dell'inevitabile lettura scolastica (il sottoscritto incassa perfino un "ma allora tu l'hai letto davvero!").
Lo spettacolo (sopra a destra la bellissima locandina con il fumo di sigaretta "personificato") non segue fedelmente il romanzo, pur strutturandosi sui suoi quattro capitoli principali: Il fumo, la morte di mio padre, la storia del mio matrimonio, la moglie e l'amante, seguendo come filo conduttore proprio quello del rapporto con un risibile psicanalista sopra le righe (Dario Merlini), in cui però il Freud al centro del libro di Svevo (allora rivoluzionario) viene inframezzato da citazioni dalla Psicomagia di Jodorowsky, confronti con Jung e riferimenti persino all'epistolario della sua amante-collega Sabina Spielrein (da cui deriva anche il film di Cronenberg).
Lungo questa trama assai poco lineare, talvolta capita di domandarsi dove intenda andare a parare la rilettura-omaggio degli Oyes, che talvolta eccede nell'impiego del grottesco, ritornando anche all'interazione col pubblico per attualizzare la fine autoironia dell'infelice Zeno (Fabio Zulli), archetipo del fallimento esistenziale dell'uomo novecentesco, irresoluto, incapace di prendere decisioni cruciali sulla propria vita, inesorabilmente (e spesso meschinamente) trascinato dagli eventi a non esser mai "protagonista della propria storia": agiato senza merito, direttore dell'azienda del padre senza sapere "che lavoro fa davvero", sposo di una che non ama (Augusta/Livia Castiglioni, sotto al centro fra marito e psicanalista), con un'amante "insignificante" per contrastar la noia, invidioso del più brillante (e non meno meschino) amico Guido (Francesco Meola), marito dell'Ada che avrebbe voluto lui (Francesca Gemma, qui sopra a destra) e pure lui fedifrago oltre che giocatore d'azzardo a spese dell'azienda di famiglia.
"Uno di noi", insomma, anche nel XXI secolo: sbagliato, incompiuto, infantile di fronte alla maturità comprensiva della moglie che lo ama "nonostante", fuori posto persino nella rappresentazione di sé stesso. Il che porta all'ulteriore citazione di classici novecenteschi inserita dagli Oyes nella loro drammaturgia attraverso l'elemento metateatrale: l'inevitabile Pirandello (evocato all'inizio nell'accenno satirico alle stagioni teatrali a base di classici per riempire le sale, dette "Pirandoni") dei personaggi smarriti sulla propria identità, ma tragicamente consapevoli di non essere che parti di una recita. E oltretutto, qui, con l'inconscio più volte "maleducatamente" esposto in video - che quando occorre funziona benissimo - al ludibrio degli altri personaggi, oltre che del pubblico.
Non tutto convince fino in fondo, nella ricetta Oyes: in particolare, come dicevo, l'eccessiva ricerca di situazioni non solo ironiche ma apertamente comiche fino alla pochade (ad esempio l'inseguimento sul palco di Zeno da parte dello psicanalista, terrorizzato all'idea di perdere quel paziente che si rivela più indispensabile per lui che non l'opposto come dovrebbe essere). Ma il risultato finale è piacevole e riesce a farci ripensare allo Svevo, dimenticato appunto fra le letture del liceo (e che io stesso avrei ritenuto un "moderno ormai un po' consumato" nella sua forza dirompente), come a un vero classico appunto, cioè un libro che non ha ancora finito di parlarci di noi.
Anche grazie all'apocalittico finale "quasi fantascientifico", in cui Zeno sembra profetizzare un imminente olocausto nucleare (l'autore scrisse all'indomani della Prima Guerra Mondiale), nella drammaturgia smentito dal custode (Daniele Crasti), che si riveste alla fine di una giornata di prosaico lavoro alla sua mostra dicendogli che no, la fine del genere umano avverrà senza neanche una spettacolare fiammata epica, ma nella mediocrità quotidiana cui siamo già rassegnati, in cui si restringono gli spazi per vivere, si distrugge l'ambiente, si contraggono malattie "che viaggiano lontano in prima classe, rinunciando anche ad abbracciarci per evitare il contagio". Un monologo un po' didascalico, ma che rende ben chiara (se ancora non lo fosse) l'attualità della visione di Svevo. Poi si tira su la mascherina e se ne va, riconsegnandoci al nostro devastato e vile Ventunesimo Secolo in corso.
Un'ora e quaranta che non pesa e tiene desta l'attenzione (anche quando non si è del tutto d'accordo con le scelte registiche), che potete vedere nella sala Fassbinder dell'Elfo Puccini fino al 2 giugno.
Mario G.
N.B.: foto di scena di Luca Del Pia, foto della locandina di Umberto Terruso.