Anni fa, si era agli inizi dell’eone berlusconiano, lessi un articolo di Stefano Benni che stigmatizzava l’incapacità della sinistra italiana di generare seri anticorpi per l’infezione che andava a preparare il nostro presente (pensate, allora era un concetto nuovo). E i giovani? – si chiedeva Benni, chiaramente sottintendendo un dove sono finiti i giovani ribelli del ’68, pronti ad alzare barricate e ad opporsi ad ingiustizie sociali che, viste con l’occhio dell’oggi, fan quasi tenerezza? I giovani, si rispondeva lo scrittore (cito a memoria), “oggi mi sembrano per lo più consumatori di prodotti di sinistra”.
La definizione mi entrò nel fianco come una spina e ancora ruga: ma come, anni ad ascoltare Tom Waits e Nick Cave, a vedere Wenders, Kaurismaki e Fassbinder all’Elfo, e tutto si riduceva – lungi da una posizione “alternativa”, come ci piace definirla – semplicemente a occupare uno scaffale di nicchia del Grande Supermarket Globale della cultura?
In effetti, la preoccupante conclusione trovava conferme proprio nel campo dei cultural studies anglosassoni dedicati al pop e al post moderno (se non erro, in Dick Hebdige in particolare), che vedevano il grande movimento di ribellione giovanile da noi noto come Sessantotto non tanto come (nelle intenzioni) titanico tentativo di contrapposizione alla società borghese consumista, bensì proprio come avanguardia di un consumismo “potenziato”: come avrebbero potuto infatti trionfare gli stili di vita (totem dei pubblicitari) e i relativi consumi differenziati, se non attraverso una “liberazione” del corpo e del desiderio, motore inesauribile del consumo, rispetto al rigore della società irreggimentata prebellica? Ebbene, questa liberazione l’ha garantita l’avanguardia del Sessantotto con gli hippy, Woodstock, il rock, l’abbigliamento casual, insomma l’invenzione del giovane come simbolo (non a caso, altro totem della gerontocratica telecrazia vigente).
Su un piano più alto, quello dell’analisi del Movimento politico e del suo logos e non solo dei suoi stili estetici o artistici, come sia possibile che un movimento si tramuti paradossalmente nel fedele scudiero del mondo che vorrebbe ribaltare ce lo spiega con puntuali fondamenti filosofici il saggio “Contro il Sessantotto” di Alberto Giovanni Biuso: uscito originariamente nel ’98 (forse in polemica con certe rievocazioni trionfalistiche e nostalgiche alla “Formidabili Quegli Anni”) e ripubblicato ampliato nel 2012 (Villaggio Maori, pp. 171, 14 €).
L’autore si concentra sul Sessantotto italiano e individua nell’egualitarismo di Rousseau, nella Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, assai più che in un Marcuse (più citato che davvero approfondito da tanti “contestatori”), le fondamenta della semplificazione del dibattito politico che si fa ideologia “religiosa”, promessa di un imminente paradiso in terra, tipico di ambo le contrapposte ideologie totalitarie del ‘900, nazifascismo e stalinismo. Promessa che non ammette dubbi né dibattiti interni, parabola offerta alle masse (altro nodo chiave dell’analisi) in un linguaggio semplificato e liofilizzato per essere comprensibile a tutti, che finisce col non dire nulla.
Quindi l’autore si spinge anche oltre: ciò che abbiamo sempre considerato un “tradimento degli ideali”, un voltafaccia da parte di quegli intellettuali ex ribelli da manifestazione studentesca (i Ferrara, i Liguori cui tutti pensiamo subito) che – mutati i tempi – si sono astutamente accodati al carro berlusconiano, in realtà non era contraddizione ma compimento di un percorso, essendo la piattezza sloganizzante dell’urlo sessantottesco l’ideale apripista del piattume televisivo, che negli anni ’80 chiamavamo “riflusso”, mentre non si trattava che della realizzazione di quella premessa e di quella promessa, quella appunto del paradiso in terra in cui tutti sono eguali, proprio come davanti ai consigli per gli acquisti: “Nessun totalitarismo era arrivato a tanto”, scrive Biuso: “produrre negli uomini asserviti la gioiosa illusione della libertà. La violenza dilagante in televisione è il grande eccitante in grado di tenere legati gli spettatori fino al prossimo spot”.
E, più oltre: “Quel movimento […] ha segnato la fine della politica come lotta fra programmi, visioni del mondo, soluzione dei problemi, dando vita a una generazione di capipartito il cui unico obiettivo è stato la ricchezza e il metodo la corruzione. Il fatto che molti di coloro che urlavano nelle piazze siano stati poi gli apologeti dei corrotti chiude il cerchio e decreta la reale vittoria del Sessantotto: non l’immaginazione (paravento ideologico per le anime belle) ma la tracotanza al potere”. Insomma, il Sessantotto, mentre criticava una società che considerava orwelliana, ci preparava il divano su cui accomodarci nell’accomodante apatia edonista multimediale huxleyana da “Mondo Nuovo”.
La tesi è spiazzante (tornando alla metafora iniziale, il ’68 in fondo ci ha dato anche Jim Morrison, Lou Reed, Janis Joplin, De André, o Luther King e non solo Malcom X) ma – visto il mondo che ci circonda oggi – va presa in seria considerazione. Anche laddove Biuso si accanisce sulle incongruenze e sulle debolezze ideologiche e filosofiche del Movimento con un radicalismo che talvolta verrebbe quasi da accostare a quello dei criticati giovani d’oltre 40 anni fa, anche se con basi concettuali ben più solide e con una spietata analisi della massa come vero attore/agito della politica e della Storia del XX secolo.
Ma l’onestà intellettuale e il rigore del filosofo trovano conferma, se ce ne fosse bisogno, nell’ambigua autocritica aggiunta a questa riedizione: il V Capitolo, “Desiderio del Sessantotto” appunto. In cui l’autore riconosce al grande fenomeno di contestazione – pur ribadendo la validità della propria critica – il merito di avere stappato la società da diversi luoghi comuni, per esempio sulla famiglia, soprattutto liberando l’individuo in quanto “corpo desiderante” che, se non si lascia incanalare dal nulla televisivo, è l’autentica molla che ci spinge verso la conoscenza e l’azione in nome del miglioramento, quale che esso sia.
Sempre nella laica consapevolezza che anch’esso, ove realizzato, sarà sempre a propria volta perfettibile quindi criticabile e superabile. E che la promessa del paradiso in terra non può che rivelarsi sempre, dolorosamente, “il battistrada della ghigliottina” (Gehlen).
Mario G