Ed eccoci finalmente al promesso terzo capitolo dell'analisi del revival degli anni '80 attraverso i dischi che lo rilanciano nel presente. Il più difficile perché - se i King Gizzard & the Lizard Wizard ci giocano come bambini che hanno scoperto in soffitta il baule cogli abiti del nonno (Moroder) e i Duran Duran come chi gli '80 li ha fatti e ora li inserisce nel quadro del pop rock che li ha preceduti e di quel che ne è seguito - Steven Wilson sta su tutt'altro piano.
Secondo il sottoscritto uno dei musicisti più poliedrici e vari del panorama contemporaneo, viene catalogato come "neo prog" ma è capace di sporcarsi le mani col black metal (Opeth) come col techno pop dell'ultimo The Future Bites: per questo approccio l'abbiamo definito una specie di "nuovo Bowie", più che per una specifica somiglianza stilistica. Ché quella magari giustificherebbe più il paragone con un moderno Peter Gabriel, che va sublimando nel proprio percorso solista il progressive macinato coi Genesis con l'elettronica e la new wave che appunto nei primi '80 investivano come un tornado lui, i Pink Floyd e tutti i giganti della generazione precedente (qui sotto il clip della title track).
Rileggiamoci un attimo quel che scriveva Rossano Lo Mele nel suo editoriale introduttivo al supplemento Rumore 100 (n. 3, agosto/settembre 2023) sui "100 dischi essenziali new wave & postpunk italiani": "A ripensarci adesso, (nel periodo 1979-82, NdR) non compravo mai dischi vecchi. E perché avrei dovuto? C'erano così tanti dischi nuovi da avere davvero che non esisteva una sola ragione al mondo per mettersi a studiare il passato. (...) Ciò era parzialmente dovuto al fatto che la cultura delle ristampe, da cui oggi siamo travolti, all'epoca non esisteva".
Ecco, forse per contestualizzare la fase attuale del Wilson sound aiuta osservare invece proprio la lunga teoria dei classici del rock da lui devotamente rimasterizzati in 5.1 surround sound e Dolby Atmos, che è iniziata coi monumenti del progressive da lui tanto amato (King Crimson, Jethro Tull, Yes, ELP, Caravan, The Who etc.), ma poi proseguita con alcuni must proprio della new wave: Vienna degli Ultravox e i loro maestri Roxy Music, poi diversi album di XTC, Simple Minds, Tears for Fears, persino dei "commerciali" a-ha ed ABC, fino alla "screditata" disco music degli Chic di Nile Rodgers (in seguito produttore supercool di Bowie, Duran Duran, Material, Laurie Anderson e tanta gente del "giro giusto"!). Addirittura i primi revivalisti del prog in pieni anni '80, i Marillion in qualche modo padrini degli stessi Porcupine Tree!
Un percorso che la dice lunga sulla fase "nostalgico-enciclopedica" che stiamo vivendo ora in musica (e non solo), la quale però ci porta ad abbattere antichi steccati, fondendo mondi un tempo ideologicamente ritenuti assolutamente non comunicanti (come ricordavamo, un giovane waver come Bob Geldof era assai riluttante alla proposta di interpretare Pink nel The Wall dei Pink Floyd/Alan Parker!).
Ok, adesso basta girarci intorno, fuori il coraggio: il primo pensiero che mi ha attraversato mentre assimilavo il (sempre notevole) The Harmony Codex mi ha portato a quei mega successi dei primi '80 firmati da superstar del decennio precedente, tipo Owner of a Lonely Heart (Yes, sopra in uno still del video) o Follow You Follow Me (Genesis), per non parlare dell'ormai mitica Another Brick in the Wall Floydiana: ma vi ricordate che discussioni nel 1980 su quella batteria in 4/4 che andava 'vergognosamente' forte in discoteca allora, conquistando al concept di Waters il plauso di ragazzi che neanche sapevano cosa fossero Saucerful o Ummagumma (ma che tutt'al più ballavano la Mammagamma di Alan Parsons).
Impresentabili, eh? Infatti, mai avrebbe ammesso d'ascoltarli un Lo Mele dell'epoca, che vedeva sbocciare intorno a sé ogni settimana un Joy Division, un Cure, un Bauhaus e poi un Siouxsie. Eppure quella roba vendette milioni di copie nel mondo... tutte a degli scemi? No, allora solo a gente che magari non riusciva a digerire i duri del postpunk, anche se va ricordato che per esempio dietro Owner of a Lonely Heart c'era anche Trevor Horn, con Geoff Downes anima dei Buggles (Video killed the radio star) ma per un breve periodo parte dei tardi Yes.
Tutta questa rivisitazione serve a dire che oggi la cifra di Steven Wilson è un'intelligente e raffinata sintesi dell'anima ariosa e prog (diciamo alla Animals), con riferimenti anche a Genesis e Gabriel solista (le sentono anche su SentireAscoltare) dei brani lunghi come Inclination, Impossible Tightrope (con belle divagazioni jazzistiche di piano elettrico e sax), come la spaziale, minimalista e futuribile title track (con vibrante recitativo della moglie Rotem) e la conclusiva Staircase, uno dei brani più ruvidi e ritmati del levigato e crepuscolare orizzonte dell'album, con quelle più synth pop delle più asciuute Economies of Scale (video qui sotto).
Oppure anche Beautiful Scarecrow (altro bellissimo clip animato dalla stessa Jess Cope già al lavoro per i suoi amici Opeth, vedete anche quello qui di seguito). Ma anche... della già citata Inclination, in cui appunto le atmosfere dilatate e oniriche del Wilson che conosciamo convivono perfettamente con le ritmiche motorik da Depeche Mode dilatati.
Questo era il punto del riferimento agli storici hit tardivi dei grandi gruppi anni '70 nel nuovo decennio: mondati di certo kitsch (che non sfiora certo il nitore degli arrangiamenti dello Steven odierno) erano il tentativo dei protagonisti delle megasuite prog di sbarcare nel decennio del synth pop e delle ritmiche secche sui 3' di durata. Ciò che appunto ha ottenuto lui nel nuovo album.
Resta solo da dire della struggente Rock Bottom, scritta e cantata dall'israeliana Ninet Tayeb, già presente su To the Bone con l'indimenticabile Pariah, ormai praticamente - continuiamo nel paragone floydiano - la Clare Torry del Wilson.
Per il sottoscritto, forte candidato a disco dell'anno 2023.
Mario G