Planet Terror è sporco, graffiato, il risultato di un’evocazione filmica di chiara ascendenza pulp che attinge al cinema horror, ma soprattutto al più ampio bacino dell’exploitation.
L’estetica della pellicola è in questi pochi elementi: la volontà di squarciare lo schermo e conficcarsi direttamente nella retina dello spettatore, senza troppi fronzoli, con contenuti di dubbio gusto, ma capaci di imporsi con forza e furore cinematico. Il tono arrogante e insieme ironico del film emerge già dalle prime fasi della proiezione. Il falso trailer di un film di bassissima lega si mostra alla platea: Machete, un titolo che non lascia molto spazio all’immaginazione. È la storia di un immigrato messicano che si vendica dei suoi aguzzini, ricorrendo ad un uso spropositato e abbondante di coltelli, lame e armi da fuoco di ogni tipo, calibro e dimensione. Il fake trailer introduttivo non pretende di stupire per profondità narrativa o per una qualsivoglia prospettiva etica; solo divertimento che ammicca ad un manicheismo da cinema di serie B: il bene – che in quanto tale è libero di ricorrere alla violenza come e quando vuole – contro il male, i soliti “cattivi”, per nulla umani, dotati di una personalità che a malapena raggiunge le due dimensioni.
Ma veniamo a Planet Terror. Diretta da Robert Rodriguez, la seconda parte del dittico Grindhouse è un infection movie che rispetta tutti i crismi del genere. Un pericoloso gas in grado di trasformare gli uomini in creature mostruose affamate di carne umana viene liberato da un gruppo di militari ammutinati.
Dopo una brevissima introduzione, l’assalto delle forze infette è già lì, esplode sullo schermo, come un insetto che si spiaccica improvvisamente sul parabrezza di un furgone in corsa.
Il regista gestisce le riprese con cura e attenzione geometrica, nonostante l’aspetto consumato della pellicola possa portare lo spettatore a considerare l’intera pellicola permeata da una trascuratezza generale, che in realtà non c’è, è solo apparente. Il ritmo narrativo è sostenuto e cattura l’attenzione sin da subito. Planet Terror è una riuscitissima fiera del disgusto: medici cinici che parlano di malattie mortali come se fossero delle comunissime ricette culinarie, ascessi cutanei, crani esplosi e pustole ricolme di liquido purulento che intasano l’intero schermo, in attesa di essere spurgate, “digerite” dallo spettatore. I dialoghi sono generalmente insulsi, tranne quando sono finalizzati alle poche rivelazioni relative al plot. Il loro fine primario è chiaramente quello di stemperare la carica delle immagini truculente.
D’altra parte lo script di Planet Terror nasconde un’anima autoreferenziale al pari della sceneggiatura che Tarantino ha scritto per Death Proof – l’altra metà del dittico Grindhouse – ma che, a differenza di quest’ultima, si esprime con maggiore essenzialità. Il vortice di violenza gratuita avanza imperterrito per tutta la durata della proiezione, crescendo inquadratura dopo inquadratura, svuotando di qualunque appiglio morale il susseguirsi degli eventi. L’intera pellicola è impregnata di esplosioni ematiche, così come di citazioni cinematografiche e metacinematografiche, ora pedissequamente riprodotte, ora rielaborate con maestria: la morte accidentale di un bambino che si spara in faccia mentre è comodamente seduto in auto e che imbratta il parabrezza con sangue e materia cerebrale ricorda la scena del colpo di pistola esploso altrettanto accidentalmente in auto da John Travolta in Pulp Fiction; Tom Savini (*), leggendario creatore di effetti speciali per film horror che per un'ironica inversione di ruolo qui veste i panni di un vicesceriffo destinato ad essere smembrato dagli infetti, o dagli stessi “effetti” che ha contribuito a perfezionare; lo stesso Quentin Tarantino, nel ruolo di un militare sadico dalla parlantina irrefrenabile e appassionato di programmi televisivi pulp; le pale dell’elicottero usate per affettare zombie in un tripudio di sangue e smembramenti richiamano alla mente una scena identica vista in 28 settimane dopo (e prima ancora in Holocaust 2000 di De Martino) sono solo alcuni esempi dell’universo citazionistico che permea la pellicola.
Magniloquente e autoironico nell’evidenziare in ogni frame l’anima exploitation della propria creatura, Rodriguez sembra perdere lentamente il controllo sulla narrazione, come i personaggi del suo film, destinati uno ad uno ad esplodere, a schizzare con braccia, gambe e budella fuori dallo schermo. Il piacere visivo dell’esagerazione supera la stessa storia, svuotando quest’ultima di profondità, e condannandola ad uno stato di semplice schiavitù narrativa. Nonostante questi elementi però, la trama di Project Terror (questo il titolo originariamente scelto dal regista) si mantiene in perfetto equilibrio, regalando allo spettatore una disinibita quanto originale visione del genere splatter.
Il montaggio è funzionale alla storia, adrenalinico, rapido, così come la fotografia, spesso intervallata da false bruciature o luci monocromatiche che rendono piatta
l’immagine proiettata. Gli effetti speciali sono volutamente irrealistici, e curiosamente abbonda la CGI, pur nel gusto vintage ricercato con gli "sporcamenti" della pellicola. Tecnicamente all’avanguardia, la computer grafica risulta spesso talmente eccessiva da rivelarsi nella sua natura fake.
Da questa considerazione emerge la volontà del regista di rispettare uno dei marchi di fabbrica del cinema grindhouse: l’approssimatività della resa visiva. Allo spettatore meno attento, il ricorso a questi trucchi vintage del mestiere potrebbe quasi sembrare un inganno, una “trappola” volta a distogliere l’attenzione dalla debole trama. Eppure ciascuno degli aspetti fin qui descritti si integra con l’intero progetto con notevole e ben equilibrato slancio cinetico, e per mezzo di un plot che è insieme semplice e ben architettato. L’ontologia dell’universo grindhouse è così rispettata in pieno. E per lo stesso motivo, è deprimente assistere alla divisione del dittico Tarantino-Rodriguez realizzato in sede di distribuzione qui in Italia.
Non resta che sperare in un’edizione home video che riporti in vita la monadicità del duetto Grindhouse, con il suo minutaggio originale e con tutti i suoi fake trailer, tra l’altro girati da registi di tutto rispetto: Rob Zombie (autore dell’ottimo La casa dei mille corpi e di La Casa del Diavolo), Edgar Wright (recentemente visto sul grande schermo con il sorprendente Hot Fuzz) ed Eli Roth (autore osannato da Quentin Tarantino e regista del discusso dittico Hostel). L’anima da action puro che pulsa in Planet Terror brucia efficacemente il minutaggio con famelica profusione di donne mozzafiato, eroi misteriosi e macchiette piuttosto grottesche (un macellaio ossessionato dalla ricerca dalla salsa perfetta, una moglie lesbica sposata ad un marito paranoico e con tendenze alla tortura e così via).
La colonna sonora poi, è martellante al punto giusto, e svolge egregiamente il suo compito. Planet Terror insomma è una sublime pellicola di intrattenimento, girata con grande arguzia, ricolma di invenzioni geniali e topoi del cinema horror opportunamente reinventati. Un film da vedere a tutti i costi, poiché cela il lavoro di un artista colto, che di cinema ha fatto indigestione e che di cinema sa parlare con passione e lucidità disarmante.
Domenico Mastrapasqua (aka 7di9)
(*) Tom Savini era già apparso come vampiro sanguinario – ricordate Sex Machine? – in Dal tramonto all’alba, sceneggiato da Quentin Tarantino e sempre per la regia di Robert Rodriguez. Ha poi diretto nel 1990 un dignitoso remake de L’alba dei morti viventi di George A. Romero, con il quale lo stesso Savini aveva cominciato a collaborare in Zombi (1978) sia in veste di curatore degli effetti speciali, sia di attore.