Alex Tonelli recensisce il nuovo film del regista sudcoreano, un saggio sulla vendetta violenta ad un Sistema insensibile, presentato alla 71.a Mostra del Cinema di Venezia. Ma che non l'ha convinto.
Sequenza iniziale, confusa, volutamente fugace: una ragazza viene rapita. Il film si dipana da questo evento, è il 9 maggio, data che segnerà lo scorrere di tutta la pellicola.
Sequenza successiva. Un giovane uomo a tavola con la sua ragazza in un ristorante. Il discorso cade sul nuovo lavoro di lui, sulle difficoltà della Corea di oggi che lascia indietro chi non ce la fa, impietosa e crudele. Si confronta l'idealismo di lei con la concretezza disincantata di lui. Ubbidire agli ordini per sopravvivere, per non venir licenziato e, così, buttato fuori dal Sistema. Il Sistema chiede l'ubbidienza, oltre ogni principio personale, ogni etica individuale. Esiste solo una morale, ed è la morale del Sistema.
Scena terza. Il giovane uomo viene rapito da una banda misteriosa, apparentemente soldati. Imprigionato, legato, torturato, al giovane viene chiesta una confessione. “Cosa hai fatto il 9 maggio?” E l'uomo scrive su un foglio bianco la sua confessione. La violenza e l'uccisione di una ragazza.
E la domanda finale, “Perché?” “Perché lo hai fatto?” ha solo, un'unica (storica, potremmo dire) risposta: “Mi è stato ordinato di farlo”.
Nessuna etica dell'uomo è forte come l'etica del Sistema.
Da questo momento in poi il film si dipana in un continuo gioco di rapimenti, torture e confessioni. Una banda di comuni cittadini rapisce, (ogni volta indossando abiti differenti - da netturbini, agenti segreti, poliziotti, ecc. - ed è forse questa la trovata più interessante del film) i responsabili materiali e i mandanti dell'assassinio.
È una vendetta e una sfida. Da un lato uomini organici al Sistema, forse poliziotti o agenti di qualche agenzia governativa non precisata, e dall'altro comuni cittadini, uomini allo sbando, a un passo dalla rovina. Dalla fine. Uomini che non hanno più nulla da perdere e che diventano ribelli. Rivoltosi (terroristi?).
Al loro comando un uomo rude, violento, arrabbiato. Un uomo (scopriremo poi essere un ex-soldato) che ha trasformato la sfida e la vendetta contro il Sistema in una lotta personale. La sua rabbia è essenziale alla sua esistenza.
Il film prosegue verso un crescendo di violenza, tanto che gli stessi vendicatori a uno a uno lasciano la banda. Ognuno scopre il proprio limite.
Sino al momento finale. La cattura del Generale. Il mandante supremo. Colui che ha ordinato la cattura e l'assassinio della giovane. Colui che dovrebbe incarnare il Sistema. Il marcio, il male, l'oppressione, le colpe, il dolore.
Ma il Generale è solo un ennesimo tassello di un gioco più grande. Il Generale ordina assassinii e violenze ma non ne conosce più neppure la ragione. Sa che per sopravvivere deve farlo. E, come gli uomini che hanno materialmente ucciso, anche lui non può che farlo. Assoggettarsi. Essere “organico” al Sistema.
In un momento finale, nel faccia a faccia fra il Generale e il capo dei vendicatori, tutto prende corpo, i ruoli diventano palesi. Ruoli come di una recita. Azioni identiche come in una catena di montaggio. Parti di un meccanismo che per funzionare ha bisogno di ingranaggi che muovono in un verso, e altri che muovono in un verso opposto.
Il Sistema necessita di Generali e di vendicatori perché nel mezzo di questi due opposti vi sia tutto il resto. Il popolo, le persone, noi stessi. Inconsapevolmente pezzi di una macchina che non ci considera neppure.
E come può finire questo gioco di azione e reazione? Semplicemente non può finire. E allora ecco che il testimone della vendetta passa a un altro. E da questo passerà a un altro ancora. E così via. Perché la vendetta è fondamentale. Così come lo è la crudeltà insensata.
Tutto in un vortice il cui senso è solo mantenere un Sistema che esiste (mi sia permesso notare la somiglianza con Durkheim) prima e indipendentemente dalle persone che ne fanno parte. Quasi che sia un essere che vive da sé e in sé prolifera.
Se questo è il senso profondo del film di
Kim Ki-duk, dobbiamo però notare che l'esito narrativo, cinematografico è piuttosto deludente. Il film è ripetitivo, a tratti noioso, totalmente privo di quella tensione poetica che ha caratterizzato sin qui il lavoro del regista coreano (tensione che raggiungeva l'apice in un film altrettanto crudo e violento come il precedente
Pietà, di cui
QUI leggete la recensione negativa di Marco Marchetti e
QUI quella positiva di Walter, NdR).
Non chiediamo a un regista orientale di seguire i canoni stilistici occidentali, lo sviluppo narrativo lineare e comprensibile che caratterizza la cinematografia, soprattutto, americana. Non possiamo però non rivelare come il film accenni a spunti, apra trame che poi vengono abbandonate, accantonate, come tentativi abortiti di un approfondimento psicologico dei personaggi.
La sensazione è di incompiutezza.
E' dunque un film da vedere? Di alcuni autori, quando esce un loro nuovo film, non si può non correre al cinema (anche nel più sperduto cinemino d'essai) e sedersi concentrati e in palpitante attesa. Ma, in alcuni casi, si resta delusi. Aspettative troppo alte? Cannibalismo autoriale da appassionati? Non lo so.
So che
One on One non è, ahimè, un bel film.
Alex Tonelli