"Trovo che qui dentro tutto sia così... provvisorio"
(R. W. Fassbinder, Come gocce su pietre roventi)
Una volta partorito, “scimmietta nuda” glabra e pelata, il neo-nato scopre intorno a sé l’essenziale (ma brillante) scenografia ideata dal regista/autore Gaddo Bagnoli, direttore artistico della compagnia Scimmie Nude, produttrice dello spettacolo: un parallelepipedo rosso a simboleggiare la virilità, un pallone blu a metaforizzare la femminilità, in mezzo un uovo giallo, origine (neutra) della vita, contenente in potenza tutte le sfumature fra i due opposti, appena usciti dalla quale – illustra il testo ai digiuni di psicanalisi – inizia l’inesorabile processo di cristallizzazione di un’identità di genere.
Ma cosa individua un maschio/una femmina? Una giacca rossa o un boa di struzzo blu come i poli che devono esprimere? All’inizio, il neonato ha idee confuse: borbotta parole bifronti come “Màmmo…” e altri incroci lessicali tipo “uoma” o “donno”, per chiarirci che il processo è ancora fluido. L’attore è attratto contemporaneamente dai due oppostli sessuali e pencola sempre più freneticamente fra il parallelepipedo e la sfera, senza riuscire a scegliere quale sia il giusto approdo.
Ora veste un mocassino maschile rosso su un piede e una scarpa femminile blu col tacco alto sull’altro. Ben presto, i due piedi iniziano a bisticciare fra loro rinfacciandosi i cliché della mascolinità/femminilità che in una qualsiasi giornata troviamo reiterati a sfinimento nel social cicaleccio di Facebook: “Tu non mi ascolti”. “E tu parli continuamente”. “Non hai un minimo di sensibilità”. “Sei un’isterica”. “E tu sei un maiale” e via banalizzando. Il Vizietto di Tognazzi/Serrault è dietro l’angolo.
È questo, almeno a mio parere, il punto più basso di uno spettacolo che mi è parso sicuramente più riuscito nelle parti coreografiche, evocativamente rese con un gesto proveniente dal teatro danza (su musiche originali di Sebastiano Bon e Francesco Canavese), che non in quella della scrittura, dove pure arriva a lambire la poesia con espressioni dense, come “esploro il corpo senza genere, senza l’assedio dell’essere”, oppure “identità: un trucco per riconoscermi”. Ma non sfugge ai didascalismi (come già accennato sopra), a cercare la facile risatina del pubblico attraverso la mossetta dell’attore che alterna la posa macho all’ancheggiamento femmineo. Né a chiudere con il richiamo politically correct alla “bellezza androgina”, che “parla di una natura inesplorata”, efficace immagine purtroppo diluita nella predica finale che – se la recuperassimo – staremmo tutti tanto meglio.
Bene, detto della psicosessuologia un po’ “da Donna Moderna”, va riconosciuto senza esitazioni che l’attore (Andrea Magnelli, che vedete nelle foto ai lati) è duttilissimo ed efficace, sia nella recitazione che nell’espressione corporea, sia nel pensoso che nel comico, come nei momenti di coinvolgimento fisico del pubblico (niente di hard, beninteso, restiamo sempre nel campo del gioco divertente e inoffensivo).
Quel che non convince me invece è proprio la drammaturgia: se l’obiettivo è mettere in discussione l’identità di genere, lo spettacolo dovrebbe portarmi a ripensare le mie certezze virili (o femminili se fossi una spettatrice).
Se invece il pubblico ride, ciò non accade, proprio perché il riso stabilisce immediatamente un filtro di distacco nei confronti della materia cui si applica. Si ride di lui/lei, mai di sé.
En passant, ricordo tra l’altro che la piéce originaria del Vizietto era del ’73: nel 2015, l’uomo che ancheggia e sbatte le ciglia dovrebbe essere una “provocazione” ormai dietro le spalle.
Dico dovrebbe perché in realtà il pubblico in sala alla prima ride spesso e volentieri durante la performance, segno che…
1) la gente (anche quella colta che va a teatro) ride sempre delle stesse cose, da Plauto in qua. Fatela ridere di un frocio e sfonderete sempre;
2) il regista Gaddo Bagnoli ha raggiunto il bersaglio: il pubblico dissimula colle risatine l’imbarazzo sui propri tabù (reazione tipica per esorcizzare un disagio psicologico);
3) io non ho capito niente e critico per idiosincrasia preconcetta verso la commedia.
Il Bagnoli, raggiunto dopo lo spettacolo per una chiacchiera informale, afferma peraltro di non puntare affatto alla provocazione “in-the-face”: “altre compagnie cercano l’impatto frontale, l’oltraggio, la sfida nei confronti del pubblico”, ci spiega. “Noi no, ci fermiamo sempre un passo al di qua, non è quello che cerchiamo. Preferisco far riflettere in un clima più disteso e accessibile. Il metodo della crudeltà artaudiana cui pure ci ispiriamo non deve significare necessariamente crudeltà in scena o verso lo spettatore”. Fuorviante sarebbe quindi cercare in lui il melodramma dei sessi di Fassbinder da noi citato in apertura, come lo strazio sociale ed esistenziale di Sarah Kane o alle performance sfrontate di ricci/forte.
A voi dunque la parola, androgini transumani del 2015: Cromosomie, Viaggio sui generi(s), sarà in scena al Teatro della Contraddizione fino al 29 marzo: vedete, tornate sul sito e votate voi stessi la vostra opzione fra le ipotesi qui sopra.
Mario G