C’è il giallo. E c’è il giallo francese. A questa distinzione tutti si pensa subito a Simenon e Vargas, a Jean Gabin e poi Delon e Belmondo etc. Ma non è del classico polar che si vuol parlare qui, piuttosto di un giallo francese che definiremo “postmoderno”. E qui il pensiero invece corre ai film manieristi (e un po’ videoclippari) di Beineix e Carax degli anni ’80. Ma in realtà non è neanche quello il nostro obiettivo: perché in fondo il postmoderno, anche se è stata definizione di moda negli ’80, parte già nei ’60 con la nouvelle vague. Anche i sassi sanno infatti che fu Truffaut a sdoganare Hitchcock sui Cahiers du Cinéma, quando il genio del giallo era considerato un cineasta “commerciale hollywoodiano” dalla critica europea, che di crimini concepiva solo quelli dei “ladri di biciclette”. Invece nel ’60 Truffaut con Tirate sul pianista (da Goodis) e Godard con Fino all’ultimo respiro dimostravano di poter esprimere una personale cifra autoriale maneggiando proprio quei materiali “di genere” all’epoca lungi dall’essere considerati “cultura” (poi entrambi l’avrebbero fatto anche colla s/f).
Ancora Truffaut nel ’68 trae da un cupo Woolrich del ‘40 il bellissimo La sposa in nero (copertina dvd a sinistra), inaugurando così questo filone diciamo “parallelo” del noir francese, che non trova riscontro per esempio nel cinema italiano (che pure all’epoca sbocciava nei Di Leo tratti da Scerbanenco e poi nei duri “poliziotteschi”): ossia quello della trasposizione in chiave locale di opere letterarie di grandi autori dell’hard boiled anglo americani. Basti pensare al suo collega Chabrol, che ha praticamente definito una propria precisa griffe nella riduzione cinematografica di romanzi non solo di Simenon, ma anche di Ed McBain (Rosso nel buio), Patricia Highsmith (Il grido del gufo) o Ruth Rendell (Il buio nella mente, immagine a destra).
Parlo di griffe perché poi anche in quelle ambientazioni di Chabrol in famiglie borghesi della chiusa provincia francese – in cui una piccola trasgressione, di solito un’infedeltà coniugale, innesca il crescendo tragico – alla lunga si può vedere il cliché. Ma la critica pensosa – che lo nota solo nei trench di Bogart, di Mickey Rourke in Sin City o nelle chiome alla Bacall della Basinger in L.A. Confidential – se gli assassini e le messaline sono dei francesi “della porta accanto” (altro titolo di Truffaut) promuove subito a cinéma d’auteur.
Ma per fortuna negli ultimi anni il filone ha percorso una nuova svolta, chiamiamola il “noir francese postmoderno con Isabelle Huppert” (qui a lato): a questa nuovissima corrente che teniamo a battesimo ora appartiene infatti l’Eva di Benoit Jacquot (poster in apertura) da cui muove quest’articolo, un film tratto dall’omonimo romanzo del ’46 di James Hadley Chase, ora disponibile in hv da CG Entertainment, che condivide la superba, odiosissima protagonista col recente Elle di Verhoven, a sua volta tratto da romanzo Oh… di Philippe Djian (autore peraltro del Betty Blue che lanciò la carriera del succitato Beineix nell’86), film con il quale Eva ha qualche punto – e qualche difetto – in comune, oltre all’algida Huppert. Anzitutto, appunto il post modernismo del mix di generi, in cui il noir si mescola a una moderna commedia sentimentale, esistenzialista e con vampate d’erotismo, alla satira sociale degli intellettuali alla Allen e così via.
Ma andiamo con ordine: il romanzo del Chase è considerato già in sé anomalo nella produzione del famoso giallista americano, in quanto rinuncia all’azione ricca di colpi di scena per le atmosfere torbide del noir “di perdizione” su un uomo irretito dalla femme fatale di turno. Come d’uso, Jacquot lo trasporta nella Francia contemporanea, in cui il badante-gigolò Bertrand (Gaspard Ulliel) ruba al morente scrittore presso cui lavora il testo di una commedia inedita, che spaccerà per propria affermandosi come astro nascente della drammaturgia. (SPOILER TRAMA) In difficoltà nel dar seguito a cotanto esordio senza averne il talento, il giovane furbetto (l’attore ha 34 anni) incontra sul proprio cammino una misteriosa squillo di lusso (appunto la Huppert, oggi 65enne!), con cui intreccia un rapporto prezzolato da cui lui spera di trarre i dialoghi per una nuova pièce, non accorgendosi di finire altresì nella classica tela del ragno che lo renderà schiavo, cornuto e mazziato, oltre che implicitamente responsabile di un’altra morte (forse suicidio): quella della bellissima fidanzata Caroline (Julia Roy, 29enne, a destra con Ulliel), che lo ama ma ha scoperto la sua ignobile tresca (FINE SPOILER).
Giancarlo Zappoli su MyMovies, osservando come la Huppert sia ormai diventata “l'interprete privilegiata per chi voglia portare sullo schermo un personaggio femminile dalla sessualità non solare” (come Elle appunto), stigmatizza che l’età dell’attrice – per quanto ben portata – renderebbe meno credibile il personaggio. Infatti già nel ’62 Losey aveva tratto un film (omonimo) dallo stesso romanzo in cui Eva era interpretata dall’allora 34enne Jeanne Moreau, mentre la fidanzata del plagiaro era la 26enne Virna Lisi.
Ebbene, se mai è un’originalità del film sganciarsi nel 2018 dal cliché della “bella senz’anima” mostrando quanto la “legge del desiderio” operi secondo percorsi inconsci ben più profondi della razionale valutazione della venustà (= giovinezza) della femmina concupita. Ben altre – e ahinoi anche più gravi – sono le pecche del remake di Jacquot: ossia l’aver messo in scena una vicenda ondivaga (difetto comune proprio col film di Verhoeven) in cui i personaggi si muovono parecchio mentre al contrario la narrazione galleggia fra pochi accadimenti realmente drammatici, tradendo praticamente tutte le promesse iniziali. Infatti (SPOILER TRAMA), il coté thriller ci viene negato dal fatto che in realtà nel corso della trama non viene perpetrato alcun crimine; quello erotico dal pudore del regista sulle scene che avrebbero potuto essere hot e che invece deludono qualsiasi voyeurismo; e quello romantico dichiarato nella scheda del film dal fatto che i personaggi risultano tutti molto freddi e alla fine nulla sapremo nemmeno delle motivazioni che muovono il più interessante di tutti, ossia la Huppert-Eva, che sguscia nella normalità coniugale appena l’amato marito esce di galera cancellando all’istante la propria seconda identità trasgressiva (FINE SPOILER).
Purtroppo, anche il coté metaletterario – ossia il discorso su scrittura, furto d’idee e tentativo di trarre arte dalla vita reale – alla fine rimane frustrato dal non sapere che fine farà la pièce del giovane plagiaro senza qualità. Assai meglio era riuscita un’operazione analoga a un vecchio volpone del noir paranoico come Polanski con Quello che non so di lei dello scorso anno, coproduzione franco-belgo-polacca stavolta tratta da un romanzo francese, ossia Da una storia vera di Delphine de Vigan, per un risultato molto più gustoso e definito che nel finale non tradisce le attese.
Pare che il film di Jacquot sia stato travagliato da diverse traversie produttive: forse in questo caso sarebbe stato meglio dare ascolto ai produttori, probabilmente avevano qualche ragione. Anche se Isabelle ci offre l’ennesima interpretazione d’alto livello, oltre che coraggiosa nell’affrontare alcuni primi piani impietosi con poco trucco.
Mario G