L’occhio che non guarda, impossibilitato nella sua azione percettiva. Immerso nel buio profondo, privato appunto della luce, dei suoi raggi, delle veridiche rifrazioni che determinano l’atto scopico. Non vedendo, non resta che la regressione, l’involuzione del costume, il ritorno all’origine primigenia; una tendenza, una spinta lamarquiana di intensità uguale ma contraria che come risultato ha o avrebbe la degenerazione delle carni e dello spirito. L’occhio è allora puntato all’interno del proprio sé imborghesito e prevedibilmente ordinario, una finestrella sull’inner space, sulle latebre, sui budelli reconditi della psiche.
La metafora dell’accecamento pare un must ricorrente nella prolifica filmografia horror degli ultimi anni, una conditio sine qua non in grado di riabituarci e riabilitarci all’oscurità conoscitiva, alla discesa nel niente, alla progressiva rimozione di noi stessi.
È quello che succede ai protagonisti di The Descent 2, pellicola inglese diretta da Jon Harris e prosecuzione interdipendente e complementare del film di Neil Marshall (di cui, in attesa di conoscere una locandina italiana ufficiale, vi mostriamo in apertura e sopra a destra due poster internazionali, NdR). La giovane Sarah (Shauna McDonald, che vedete già in situazione drammatica nella foto sotto a sinistra e completamente coperta di sangue nella successiva sulla destra, NDR) è fuggita alla caverna mostruosa in cui era rimasta intrappolata insieme alle amiche. Soccorsa e portata in ospedale, si scopre vittima di un’amnesia, di una pressoché totale dimenticanza dei luttuosi eventi degli ultimi giorni. L’orrore è stato eccessivo per lei, ha preferito fare tabula rasa come forma di autodifesa. I poliziotti locali però non credono alle coincidenze, agli incidenti, alle facili dimenticanze. Così, ritenendo che la spelonca dannata conservi ancora qualche superstite nelle sue uterine concavità, organizzano una spedizione di soccorso, capitanata dalla stessa Sarah.
Di nuovo la discesa nell’oscurità, la sottrazione della luce. Di nuovo in un territorio infestato dai fantasmi. Nel buio, nulla è quel che sembra, perché le cose perdono i contorni, gli elementi si scompaginano, si fanno evanescenti, si trasformano in liquidi segni autoreferenziali. La grotta, come la surreale de-costruzione geometrica escheriana, si allunga, si sviluppa, si avviluppa senza inizio e senza fine. I condotti riportano al punto di partenza, le diramazioni convogliano in aree periferiche che presto si rivelano vere e proprie strade alternative. Fenditure, sbreghi, intercapedini si aprono nei quarzi millenari, antiche e maestose stalattiti s’innalzano come gotici pinnacoli in pozze, fiumi sotterranei, riserve d’acqua. Parallelamente a questo, le identità si perdono, si sdoppiano, si scindono, si intersecano. Come in una casa degli specchi, si deformano in riflessi distorti, si immergono in superfici irregolari e segmentate.
La gigantesca caverna di The Descent 2 altro non è che un ciclopico cervello, nel quale è più facile perdersi che trovarsi. Più si scende, più ci si smarrisce nei suoi ingarbugliati meandri, nelle stanze segrete, nelle cavità psichiche più recondite. L’inconscio spadroneggia, violando le difese degli esploratori, attivando atavici meccanismi di sopravvivenza.
Presto la metà oscura che si nasconde in noi, l’inconfessabile e perturbante Doppelgänger, prende il sopravvento, distruggendo, annientando, rivelando la reale natura dell’essere umano. E cosa sono le strane creature, i creawlers, che massacrano, divorano, macellano i malcapitati, se non la concretizzazione degli incubi, delle pulsioni ancestrali covati dall’encefalo?
Quello dipinto da Jon Harris è un mondo senza visione, in cui lo sguardo appare depredato, falsificato, completamente obnubilato da elementi di natura indiziaria. Sarà soltanto la videocamera del primo film, reperita in un antro, a fornire la corretta chiave di lettura, a indirizzare i nostri più increduli protagonisti verso un’interpretazione a suo modo convincente e verificabile dell’accaduto. Lo strumento, infatti, occhio artificiale capace di registrare, di lasciarsi imprimere, impressionare dalla verità, non fa sconti a nessuno perché ontologicamente incapace di falsificare l’immagine (almeno non in questo contesto socio-culturale). La camera ci mostra alcune scene del primo film, l’aggressione, le creature striscianti che non lasciano scampo alle malcapitate. È essa la prova definitiva che Sarah non è una pazza visionaria, che non ha elaborato nessuna strategia mentale per giustificare un orrore all’apparenza sempre più umano.
A questo punto l’ordine s’incrina, le operazioni di soccorso si scontrano con l’ottusità delle gerarchie del mondo superiore, le divise dei tutori della legge impongono il rispetto delle regole. Purtroppo non è questo il corretto atteggiamento politico da tenere in situazioni di emergenza. In un mondo ctonio e indefinibile, che si dipana in una rete aliena sotto la città-civiltà, i rapporti sociali necessitano di un’immediata contestazione e riscrittura. Per riadattarli, per renderli più flessibili e malleabili alle nuove esigenze di gruppo.
Lo sceriffo Vaines (Gavan O'Herlihy) arresta Sarah soltanto perché rea di aver voluto imboccare una strada alternativa a quella impostale. Ma quando i crawlers attaccano i soccorritori, ecco che i “buoni” non esitano ad amputare la mano del poliziotto per liberare la giovane dalle manette. Lasciando che lo sbirro, ferito a morte, venga divorato dalle creature.
Il cervello è anche il luogo per eccellenza degli sconvolgimenti e delle rimozioni. Scavando al suo interno, in quegli interstizi invisibili, oltrepassando le soglie più proterve e inconfessabili, gli spettri ritornano a perseguitare i vivi.
Juno (Natalie Mendoza), la ragazza che nel primo capitolo era stata abbandonata a se stessa da Sarah, rivive proprio perché non è mai morta. Abbandonando le convenzioni, il senso civico, l’educazione, s’è trasformata in un guerriero, una macchina per uccidere. Totalmente immersa nelle tenebre, ha rinunciato alla vista per fare dell’udito e del tatto le uniche armi di salvezza. Juno aveva intrecciato una relazione adulterina con il marito di Sarah, ed era stata lei ad ingannare le sue amiche trascinandole nella perigliosa esplorazione di una grotta ancora vergine.
Lei aveva ferito Beth per errore, lasciandola agonizzante in mezzo al nulla. Ora le due amiche-nemiche, in un paradossale rovesciamento dei ruoli, possono confrontarsi e fronteggiarsi, come un antico trauma non ancora debellato. Non è un caso che quando le due si incontreranno, per tutto il tempo si osserveranno, si scruteranno in cagnesco, indecise se fidarsi l’una dell’altra.
Loro due, Juno e Sarah, sono in fin dei conti l’unica speranza per il gruppo, i capi-clan che, in virtù della propria dimestichezza con il luogo, potranno ricondurre gli speleologi in superficie.
Le barriere sociali cadono, le forme di controllo scompaiono, la canonica organizzazione antropologica su base consultativa ed elettiva cede il posto alla strutturazione para-tribale della comunità. Gli istinti prendono il sopravvento, la violenza esplode, vecchi rancori si trasformano in lotte intestine e crudeli.
La grotta diviene un teatrino assurdo, un kammerspiel artaudiano ed eversivo che non rinuncia alle caratteristiche tipiche della soap. Il ritorno ossessivo (del rimosso e non), dissapori trattenuti che detonano con inaudita prepotenza, fantasmi che siedono accanto ai vivi con l’allucinata nonchalance di un incubo ricorrente.
The Descent 2 è in fin dei conti la linea di confine tra quanto siamo e quanto fingiamo di essere, lo scarto infinitesimale ma al tempo stesso incommensurabile tra la maschera che indossiamo e il (vero) volto che sotto di essa si nasconde.
Marco Marchetti