"Standing on the beach / With a gun in my hand
Staring at the sea / Staring at the sand
Staring down the barrel / At the Arab on the ground
See his open mouth / But hear no sound
I'm alive / I'm dead
I'm the stranger / Killing an Arab"
(The Cure, Killing an Arab)
Cos’è successo, c’è stato un incidente? Da un dialogo frammentato e confuso emerge che no, Liam ha cercato di soccorrere un ragazzo islamico, ferito a coltellate da teppisti del violento quartiere circostante l’elegante nido della coppia. La quiete domestica è infranta: bisogna uscire e cercare di aiutare il ferito. No, il ferito s’è alzato all’improvviso ed è scappato, non c’è più. Bisogna cercarlo per aiutarlo o l’emergenza è finita?
Bisogna aiutare uno sconosciuto in pericolo di vita in nome della solidarietà umana, o chiudersi a difesa del proprio nucleo, minacciato dalla violenza che Liam dice imperare nel quartiere, dove anche Danny tempo addietro è stato aggredito da una banda di ragazzini arabi? Bisogna chiamare la polizia o prepararsi delle risposte concilianti nel caso arrivasse per proprio conto ad indagare sul ruolo di Liam nell’accoltellamento?
Danny è tollerante e solidale, probabilmente progressista. Helen è isterica e contraddittoria: la sua prima preoccupazione è che non succedano altri guai a quel fratello, buzzurro fuori controllo e incapace di badare a se stesso, già stato nei guai con la legge. E bugiardo: l’arabo non era steso a terra sanguinante, l’ha steso lui. Per difendersi da un’aggressione, una probabile…
No, l’ha seguito e aggredito lui stesso, volontariamente, pensando all’aggressione subita da Danny.
A pugni. No, con un coltellino preso da un amico stronzo (l’amico).
Esplode la tensione anche dentro casa: Helen vuole proteggere quel fratello quasi-omicida ad ogni costo. Vuole che Danny esca, trovi l’arabo e lo minacci perché non denunci Liam, che se no torna nei guai. Poi si potrà aiutarlo, il ferito. Non siamo mica razzisti.
Due fratelli molto legati. Da un vincolo quasi morboso, visto che – quando già erano orfani dei genitori (periti in un misterioso incendio) – Liam aveva picchiato il figlio di una famiglia perbene, con cui Helen avrebbe potuto andare a ricostruirsi una vita normale, vanificando le aspirazioni della sorella nella violenza, per tenerla accanto a sé.
Orfani di genitori e soprattutto di un senso maturo e non tribale della famiglia.
Danny non vorrebbe rendersi complice dei crimini dell’inaccettabile genero teppista, ma è un debole. Non resiste all’accusa di sua moglie d’essere un vile, al dubbio che lei nemmeno voglia portare a termine la gravidanza di suo figlio. Si veste ed esce. Fuori scena fa quel che gli è stato chiesto. Scoprendo che Liam ha fatto anche di peggio: ha legato e torturato a lungo l’arabo, un uomo adulto – nulla a che vedere coi teppistelli che avevano aggredito lui – che subisce le minacce per timore che la violenza razzista di cui è stato vittima colpisca anche la sua famiglia.
Si fa complice e in qualche modo gli piace: superate le remore della civiltà, riscopre il selvaggio che alberga anche in lui (in ognuno) e s’inebria della stessa violenza che prima esecrava.
La racconta ad Helen, una volta rientrato a casa sconvolto dalla propria stessa mutazione. Dopo aver sistemato le cose e cacciato il fratello sfascia famiglie. Helen ritorna ilare, felice d’aver protetto entrambi i nuclei, quei gusci di famiglia rappresentati dal fratello-violento e dal marito-buono. È una vera donna-casa: ha manipolato la debolezza del suo uomo perché facesse quello che lei voleva, ora lo riaccoglie nella sua accogliente ostrica domestica, riscoprendo il desiderio di maternità prima messo in dubbio.
Ma quando una donna risveglia il selvaggio nel suo maschio, dopo essersi sentita protetta dalla sua forza, rischia di sentirsi dare degli ordini di egoismo virile che potrebbero non essere esattamente quello che la donna sogna di udire dal proprio principe azzurro…
Scoprite da voi il finale a sorpresa del kitchen drama di Dennis Kelly, diretto da Luca Ligato e prodotto da Alraune Teatro, in scena allo Spazio Tertulliano fino al 18 aprile: è puro teatro da camera, tutto basato sui dialoghi (e quindi sugli attori, bravissimi). Figlio di Pinter e Ravenhill, potrebbe ricordare un Carnage di Roman Polański/Yasmina Reza, denudato dalle buone maniere dei newyorkesi beneducati. Ma sono dialoghi taglienti come sembra solo i drammaturghi inglesi contemporanei sappiano scrivere. Efficaci anche nelle incertezze, nei farfugliamenti, nei modi di dire “tamarri”.
Quando la lingua tace, la famiglia si mostra anch’essa denudata a puro legame di sangue primordiale, da difendere col sangue contro ogni logica. E il dentro di una bella casa si rivela uguale a quel fuori che il teppista Liam definiva “come una cloaca, non c’è più niente, siamo rimasti solo noi, sembra che tutti gli altri siano stati portati su un altro pianeta…”.
Mario G