Presentandolo a Milano con una festa degna degli anni ’80 in cui è ambientata la vicenda – col locale MIB vicino a Piazza Affari arredato a cascate di dollari con stampato il faccino di Di Caprio-Belfort e il vetusto UmberTozzi a cantare la sua Gloria (usata nella colonna sonora del film) – 01 Distribuzione ha lanciato in luglio la versione home video deluxe dell’ultimo, tracimante Scorsese, subito balzato in testa alla classifica dei dvd più venduti in Italia.
Per chi (come il sottoscritto) l’avesse perso in sala, ghiotta occasione per recuperare la torrenziale opera del regista di Taxi Driver, in verità mai così lontano dall’epopea dei marginali delle mean streets di New York che gli diede la fama nei ’70. Infatti, la vita dello spregiudicato scalatore di borsa Jordan Belfort, simpatico gaglioffo (paraberlusconiano ante litteram) gaudente ed eccessivo in ogni sua manifestazione di vita, della quale è avido come del denaro cui alla fine la immola, nulla si (e ci) nega degli eccessi di cui spesso s’è letto nei reportage giornalistici su questo tipo di personaggi (che da anni ormai campeggiano nei tg italiani): champagne e droghe a go-go, orge con segretarie, modelle ed escort d’ogni razza e colore, auto e yacht come transatlantici, ville da imperatore romano e lussi sguaiati senza confini (ben testimoniati dalle foto che vedete sotto).
Scene continuamente reiterate nelle (eccessive) quasi tre ore di film, come se il regista puntasse a dare anche a noi spettatori lo stesso senso di esagerazione, eccesso e superamento di ogni limite fino alla nausea che è la vita secondo Belfort e i suoi accoliti.
Ricordate quel che si scriveva a proposito di Scorsese (nella foto a sinistra sul set con Di Caprio e Margot Robbie, la moglie-modella) nell’articolo sulla Venere in Pelliccia di Polanski? Che si fatica ad individuare una coerente cifra registica in una filmografia così varia nei temi, toni, stili etc. In effetti, oltre ai citati capolavori storici, è difficile accostare The Wolf Of Wall Street anche a film più recenti del maestro newyorkese, come il noir psicanalitico Shutter Island o l’omaggio al cinema delle origini Hugo Cabret.
Però non è così difficile accostarlo all’altro biopic scorsesiano, quel The Aviator incentrato su un altro personaggio larger than life, un altro tycoon del cinema e del capitalismo americano. E, forse forse, anche al più violento e “plebeo” Gangs Of New York: è come se il regista stesse costruendo, mattone dopo mattone, una personale epopea americana: nelle parole di Bono (tratte dalla canzone scritta appunto per quel film), “These are the hands that built America”.
Insomma, signore e signori, ecco a voi la nazione più potente del mondo, mecca del cinema che da un secolo ce la racconta: sorta nel fango dal sangue delle lotte tribali fra disperati dei suoi “padri fondatori”, adoratrice del Dio Dollaro e dei suoi sacerdoti, tanto più venerati quanto più eccessivi e senza scrupoli. Ambiziosi, sfrontati, lestofanti, affascinanti d’una grandezza che è solo la faccia più presentabile dell’infamia dei Goodfellas mafiosi venuti su nei suoi vicoli.
E quest’epopea di faccendieri senza scrupoli conquista il successo commerciale superando titoli contemporanei ben più spettacolari? Certo, ma non crediate ad un soprassalto di coscienza del pubblico italico contro gli eccessi del capitalismo rampante, amici: tutto dipende solo dal fatto che il film fa ridere. La tragedia dell’accumulo scorre sempre sui toni del comico e del grottesco, anche nei suoi momenti più drammatici (la paralisi da overdose, l’arresto etc.) e – come già si diceva a proposito delle Assassine teatrali (con cui il film nulla ha da spartire, beninteso) – qui se c’è da ridere va sempre tutto bene. Anche la coazione a possedere e truffare, sciupare femmine, fortune e famiglie del (bravissimo) Di Caprio, qui alla quinta collaborazione con Scorsese, che gli cuce addosso tutto il film, sempre focalizzato su di lui più che sui meccanismi del mondo che gli gira intorno.
In questo, anche se probabilmente non è il miglior film di Scorsese, The Wolf Of Wall Street è un film “educativo”: ci mostra – caso mai non ce ne fossimo ancora accorti – come un uomo mediocre senza morale possa essere contemporaneamente anche un personaggio “simpatico” e a suo modo un trascinatore di folle. È questa l’idea scorsesiana di “onestà verso il personaggio”: presentarlo senza sconti ma anche senza mai giudicarlo.
Come scoprite dall’indigestione di extra dell’edizione deluxe a doppio dvd, che offre ben tre diverse featurette documentaristiche sul set (The Wolf Pack, Running Wild e Round Table), con interventi del regista, degli attori e del cast tecnico sul making di quest’ennesima sfida faraonica dell’insaziabile Marty (come lo chiama Leo).
Il quale, a 72 anni, non rinuncia neppure alla sua passione musicale di tutta la vita (assistente alla regia di Woodstock, poi autore di The Last Waltz su The Band e Shine A Light sui Rolling Stones), regalandoci l’ennesima colonna sonora che da sola varrebbe il prezzo del biglietto. Si sa che Marty usa sapidamente le canzoni sia per caratterizzare il clima emotivo di una scena sia – quando il film attraversa lunghi periodi di tempo – per inquadrare il periodo storico in cui ci si trova: qui, dove i protagonisti vivono tutti come rock star, spazia – a parte il citato Tozzi – dal blues di Willie Dixon, John Lee Hooker e Bo Diddley al jazz di Cannonball Adderley, Ahmad Jamal e Charles Mingus, fino al rock di Ian Dury, Devo e Plastic Bertrand (!), Foo Fighters e Lemonheads, fino all’immancabile, fidato Robbie Robertson.
Ed è un altro succulento naufragare.
Mario G