“Tutto quel che sarai lo sei già. Tutto quel che ti serve è già dentro di te”.
(A. J. parla a se stesso bambino, dai dialoghi del film)
Per questa sua settima pellicola girata in 46 anni di difficile quanto memorabile carriera, Alejandro Jodorowsky (qui a sinistra sul set coi suoi clown) adotta un linguaggio forse un po’ meno surrealisticamente provocatorio rispetto ai film che l’han reso celebre fra i cinefili, ma non per questo lineare o accomodante: clown circensi, nani e freak monchi, donnone felliniane che parlano cantando lirica, dittatori e rivoluzionari, preti che ti condannano mettendoti in mano una tarantola, mistici orientali seminudi e clochard ispirati ai tarocchi (la Regina di Coppe, simbolo di Madre-Terra-Acqua-Fecondità)… anche stavolta Jodo non s’è fatto mancare niente del suo barocco mondo visionario.
Anche se non seguendo cliché manierista, a quanto afferma lui stesso: “Se si mostra una donna abbondante si pensa a Fellini, se si mostra un nano si pensa a Buñuel, se si mostra un freak si pensa a Tod Browning. Ma no, era la mia vita nel mio paese. Tutti gli elementi della mia infanzia sono lì” (da un’intervista rilasciata ad Olivier Père, critico e direttore di Arte France Cinema).
La trama, come sempre di non facile decodifica, s’impernia sull’infanzia del regista nel villaggio cileno di Tocopilla (suo reale paese natale), anche se poi segue il cammino iniziatico del padre Jaime (interpretato da Brontis Jodorowsky, nella realtà figlio del regista, al centro nella foto qui a destra e sopra con moglie e Jodo-bambino): stalinista integralista, autoritario con la pettoruta moglie-cantante Sara (Jodo spiega che sua madre avrebbe appunto voluto fare la cantante lirica) e col figlio, che sottopone a terribili prove di machismo, l’uomo lascerà la famiglia per andare ad uccidere il dittatore cileno Ibanez. Al dunque, pur potendo, non ci riuscirà e ne uscirà paralizzato alle mani; subirà quindi rifiuti ed emarginazione, disprezzo, torture naziste, insieme all’affetto di una nana gobba e di un vecchio falegname. Un viaggio picaresco e doloroso che lo riporterà a casa a pezzi ma maturato, pronto a distruggere le icone dei dittatori cui aveva immolato tutta la vita fino a quel momento (il terzo dei quali è lui stesso): finalmente in grado di abbracciare il figlio (cosa che Jodo dice di non aver mai ricevuto dal vero padre) e ricambiare l’affetto della moglie (il cui calore non gli mancherà mai, arrivando quest’ultima a curarlo appassionatamente da un contagio di peste… alzandosi la sottana e pisciandogli addosso!).
Mentre, come sempre con lui, ci si perde in tanta carne al fuoco, nel suo lussureggiante immaginario fantasurreale (i concittadini per strada sempre mascherati, la parata funebre di teschi che vedete nelle foto qui a sinistra e destra), tra fellinismi e levità chapliniana, recitazione sopra le righe di tutto il cast (ma quali righe, con un autore così?!), si nota en passant una tecnica di ripresa più semplice che in passato, in qualche modo povera: “Ho detto al mio direttore della fotografia, Jean-Marie Dreujou, che volevo un'immagine clinico-fotografica, non estetica”, spiega il Maestro (nella stessa intervista a Père). “Volevo che la bellezza scaturisse dal contenuto, non dalla forma. Abbiamo dunque deciso di eliminare la forma, di non porre niente tra la cinepresa e ciò che veniva filmato, di non fare dei movimenti di macchina inutili. Ho anche soppresso tutta la macchineria e la tecnica che circondano normalmente le riprese per mantenere soltanto un cameraman con la sua steadicam. Una volta finito il film, ho rielaborato tutti i colori grazie al digitale. Questo film rappresenta una prodezza tecnica perché è stato realizzato in modo molto originale. Ho ucciso l'estetismo per creare un'altra estetica. Mi sono limitato all'essenziale, il montaggio e i piani sequenza devono molto al fumetto (di cui Jodo è pure un guru, attraverso le numerose saghe da lui scritte e disegnate da Moebius, Gimenez e persino Manara, NdR). Il film avanza come un fiume”.
Nell’incontro col pubblico seguito alla proiezione del 30 maggio all’Apollo, il regista approfondisce il discorso su questa tecnica digitale “povera” ma immaginifica, non lesinando gli attacchi al cinema mercantile americano (“quei film sui supereroi per bambini idioti”): “oggi tutti parlano di morte del cinema: per Spielberg oggi la frontiera del cinema sono le serie televisive. Per Tarantino il cinema muore per la fine della pellicola a favore del digitale. Io non avrei avuto i mezzi per girare in pellicola, ma grazie al digitale ho potuto dipingere il mio film in un modo che un tempo sarebbe stato impossibile”. È chiaro che per il regista – che, incurante dell’età anagrafica, afferma di stare “iniziando a vivere ora” e spera di iniziare con La Danza un nuovo ciclo di produzione cinematografica – la settima arte muore assai più nel cinema “da fast food” che nelle fisime tecniche dei puristi o degli strateghi dell’arte come mercato: “non ho mai smesso di immaginare dei film che non potevo realizzare, ce ne sono centinaia nella mia testa. Spero che La Danza De La Realidad sia l'inizio di un nuovo ciclo, una rinascita del mio cinema che è sempre stato una lotta contro
l'industria”.
Ha qualche difficoltà di deambulazione, oggi, ma quando parla è lucido come un ragazzo, l’anziano Jodo: non si nega a nessuna domanda, non lesinando lo humour, risponde sorridendo a tutti (forse anche perché il suo pubblico ha pagato ben 50 euro per partecipare a proiezione e incontro col Maestro). E, quel che più conta, emana l’ottimismo solare dell’uomo in pace con se stesso, che ha vinto i propri fantasmi e ha trovato il proprio equilibrio… “psicomagico”.
Invidiabile.
Mario G