"Il paese dei Tarahumara è pieno di segni,
di forme, di effigi naturali,
che non sembrano affatto nati dal caso,
come se gli dei, che qui si sentono ovunque,
avessero voluto significare i loro poteri
con queste strane forme in cui è la figura
dell’uomo a venire perseguita da ogni parte”
(A. Artaud, Viaggio al Paese dei Tarahumara)
A turno un/a performer entra in silenzio nella sontuosa sala neoclassica del milanese Palazzo Serbelloni illuminata di rosso (foto in apertura e qui sotto a destra). Accende un registratore a bobine, che diffonde gli sfrigolanti nastri di casi di possessione realmente accaduti e testimoniati. Su uno schermo a fondo sala viene proiettato nome del soggetto, tipo di possessione (xenoglossia, contatto con persone morte etc.), data della testimonianza.
Un cubo di polistirolo bianco al centro del pavimento. Questa la scena.
Scorrono nella mente flash dai numerosi film che di recente hanno riattualizzato il tema della possessione demoniaca, come L’Ultimo Esorcismo (1 e 2) o L’Altra Faccia del Diavolo.
Si diceva… “interpreta”? Secondo Romeo Castellucci (foto a sinistra) – deus ex machina della Societas Raffaello Sanzio e autore dell’intensa performance di circa mezz’ora andata in scena il 22 e 23 marzo nell’ambito dell’Uovo 2014 (e nata da un laboratorio per la Biennale Teatro 2010/11) – no, non è questa la sua missione.
Di qui il titolo stesso della performance, Attore, il tuo nome non è esatto: “attore è colui che agisce”, spiega il regista. “Non vedo nessun atto nell’attore, né volontà o scopo. Sono le potenze che occupano il suo corpo e lo fanno agire. Sono altri corpi – perlopiù del passato – che lo invadono e lo cavalcano. La sua tecnica consiste in una fondamentale passività, tradotta nell’interpretazione delle forze che lo governano da dentro e da sempre”.
Questa è la chiave: l’attore non “interpreta”, viene fisicamente posseduto da un’altra entità, la persona vissuta in passato da riportare in vita attraverso il teatro, ovvero il δαίμων (in greco tanto divinità quanto demone), come in un rito sciamanico, in una di quelle cerimonie vudù che tanto colpirono Artaud durante il suo viaggio in Messico da influire sulle ricerche in direzione di un ritorno al teatro come rituale panico, mistico, qual era all’origine della tragedia greca.
“Lo spettacolo ha nella sua essenza qualcosa della visitazione, della visione profetica e qualcosa delle ‘apparizioni’, dei fantasmi del delirio,
…dell’incubo notturno”.
(Apocalypsis cum figuris di Grotowsky – una chiave dall’abisso,
di Leonia Jabonkòwna, su Il Dramma, 1969)
Non c’è “azione”, come dice Castellucci, non c’è trama, logos, spiegazione.
Ogni “possessione” dura qualche minuto, poi il/la performer si ricompone, ferma il nastro. Si volta verso di noi e ci fissa per alcuni lunghi secondi, sorridendo enigmaticamente.
Perché sorridere?
“Mi hanno chiamato il dio del riso, e io rido mentre uccido. Hanno pensato che non sapessi sorridere, ma io sorrido a quelli che voglio sedurre…”
(parola del demone Choronzon, evocato da Aleister Crowley nel deserto di Algeri nel 1909, trascritte dall'assistente Victor Neuburg e riportate nell’articolo di Davide Pulici “Il diavolo… sicuramente”, Nocturno dossier n. 29 sul cinema demoniaco).
Poi – soddisfatto/a d’averci sedotti? – il/la performer si alza e se ne va, per lasciare la sala alla successiva possessione.
Fino al contagio, ovvero all’illuminazione degli astanti.
Oppure alla fine della cerimonia scenica.
Senza applausi, inchini, chiamate in scena, nessun classico rituale dello spettacolo.
Usciamo posseduti.
“Ognuno brucia nell’inferno che si è costruito da sé” .
“Il teatro è infezione. È un ponte, una zona di passaggio, un punto logoro nel velo che separa il nostro mondo dagli inferi, tra i mattoni che ci rinchiudono e il mito. Tra verità e finzione, un velo di garza non più spesso di una pagina.
È un’arte oscura e infetta. Infetta di vita, dei nostri corpi, delle loro forme concrete,dei desideri, delle sfide alla morale e ad ogni equilibrio.
Dei limiti estremi, della loro ricerca dell’Oltre” (*).
Mario G
(*) l’ultimo brano fra virgolette è un’immodesta autocitazione dal mio romanzo in progress Buio In Scena (e dalla sua riduzione drammaturgica, tuttora inedita), a sua volta tratta da un passo de La Voce Del Fuoco di Alan Moore (Edizioni BD) riferito alla magia. Il cerchio si chiude.