Prodotto dal Teatro di Napoli-Teatro Nazionale e Teatro Nazionale di Genova, Solaris è l'adattamento teatrale del celebre romanzo di Stanislaw Lem da cui sono tratti i film omonimi di Andrej Tarkovskij (1972) e Steven Soderbergh (2002).
L'opera, andata in scena per la prima volta a Melbourne ed Edimburgo con la regia di Matthew Lutton, è una novità assoluta per l'Italia, per il cui debutto è stata scelta l'elegante cornice del Teatro Mercadante di Napoli.
Lo spazio in scena
Un'esperienza molto intesa quella di sperimentare l'illusione del teatro sci fi, che con pochi tocchi scenografici riesce a creare la perfetta illusione cosmica di trovarsi persi nel vuoto, su una stazione spaziale lontana anni luce dalla Terra che orbita attorno ad un pianeta sconosciuto; la scena è infatti spoglia, composta dal ponte di vernice nera riflettente e un enorme oblò puntato sugli spettatori, come un gigantesco occhio scrutatore, dentro cui scorrevano languide le sinuose onde dell'oceano di Solaris, in realtà filmati originali forniti dall’Agenzia Spaziale Europea, rielaborate da D-Wok.
Non è la prima volta che l'opera di Stanislaw Lem seduce il palcoscenico, ne esistono varie trasposizioni, a cominciare dalla produzione polacca del 2009 Solaris: The Report (Solaris. Raport), di TR Warszawa, quella britannica di Dimitri Devdariani del 2012, mentre oltreoceano abbiamo La velocidad del zoom del Horizonte, del 2014, scritta da David Gaitán e diretta da Martín Acosta, presentata in anteprima a Città del Messico, ma solo vagamente basata sul romanzo, infine nel 2018 il Teatro Magdeburgo, in Germania, ha messo in scena un adattamento di Tim Staffel diretto da Lucie Berelowitsch.
Solaris su pellicola
Solaris è conosciuto maggiormente per le sue trasposizioni cinematografiche, la più famosa è quella di Andrej Tarkovskij, che costituisce assieme a 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), una delle colonne d'Ercole della fantascienza moderna, quella che è riuscita a liberarsi dalla patina di narrativa per ragazzi che la sci fi aveva avuto fino alla decade degli anni 60, quando grazie al contributo di J.G. Ballard è riuscita ad elevarsi a genere di prim'ordine, orientandosi verso la ricerca di risposte filosofiche riguardanti la condizione umana, accantonando per un po' la scoperta di pianeti lontani, ma esplorando l’inner space, altrettanto sconosciuto e insidioso.
Tuttavia si può dire che anche la trasposizione di Tarkowskij non coglie appieno il tema portante della novella di Lem. Il film riceverà delle critiche dallo stesso scrittore, secondo cui il punto di origine della sua storia non era esplorare lo spazio sconosciuto ed ostile, ma indagare il contatto con l'alieno inteso come qualcosa che è dentro di noi e che va esplorato per raggiungere la consapevolezza di noi stessi. Per Lem il film di Tarkowskij indugiava troppo sull'amore di coppia, troppo terreno e prosaico per rappresentare l'universalità delle emozioni umane, il vero contatto che può esserci tra esseri diversi e distanti, attraverso cui si arriva alla consapevolezza di se stessi.
Non abbiamo bisogno di altri mondi, abbiamo bisogno di specchi
La scelta di modellare l'alieno come qualcosa di così incorporeo e vasto come un oceano è emblematica, l'oceano di Solaris non è altro che il nostro inconscio, che si muove dentro noi, in cui sono fuse insieme le nostre paure e i nostri desideri, che nella storia prendono forme umane, che si materializzano sulla stazione spaziale come visitatori degli astronauti che la abitano. “Siamo umanitari e cavallereschi non vogliamo schiavizzare altre razze, vogliamo semplicemente lasciare loro i nostri valori e prendere in cambio la loro eredità. Ci consideriamo i Cavalieri del Santo Contatto. Questa è un'altra bugia. Cerchiamo solo l'Uomo. Non abbiamo bisogno di altri mondi. Abbiamo bisogno di specchi.” (da Solaris, di Stanislaw Lem, edizione inglese del 1970).
Chi sono io? Chi siamo noi veramente?
Un viaggio spaziale è una magnifica metafora per raccontare la scoperta del proprio mondo interiore, e lo spettacolo diretto da Andrea De Rosa lo rappresenta con un intelligente minimalismo. La scena è spoglia, un’enorme pedana inclinata invade il palco fino a toccare le prime poltroncine della platea, senza nessuna divisione, come se il pubblico fosse sull'astronave assieme ai protagonisti.
Non c'è confine tra realtà e funzione, neanche il sipario, unica membrana che divide i due mondi, come se entrati in teatro avessimo preso posto sullo Space Shuttle dai sorprendenti arredi ottocenteschi, quelli del teatro Mercadante (che peraltro impreziosivano già la sontuosa, ermetica scena finale dell’Odissea kubrickiana , NdR).
Le maschere, come degli stuart spaziali, ci hanno fatti accomodare nelle nostre cabine/palchetti, e col rombo dei motori è cominciato il viaggio. Il portellone al centro della scena si è sollevato al suono metallico dell'ingranaggio cosmico. Come in una nascita l'astronauta ne è scaturito solennemente, guardando noi spettatori, che nella magia del teatro siamo diventati gli alieni da osservare.
Il protagonista in questa versione di David Greig è una donna, una soluzione che sottolinea la particolarità delle sue regie che hanno sempre sfumature di attualità politica e sociale , e in questo caso abbiamo un equilibrio di genere tra gli interpreti: Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas e con il cameo di Umberto Orsini, che interpreta lo scienziato Gibarian, figura eterea che compare solo in video.
L'astronauta, interpretato dalla Rosellini, è la psicologa Kris Kelvin, si ritrova sulla stazione spaziale accolta da un pianto di un neonato, che farà da tappeto sonoro a tutto il resto dello spettacolo, seguito dalla voce dello scienziato a capo della spedizione, voce fuoricampo e irreale, come se fosse una voce nella testa della stessa scienziata, già facendoci pregustare l'illusione di essere sì nello spazio, ma forse lo spazio della coscienza della stessa protagonista. Con un gesto quasi liberatorio si sfila la tuta, che verrà sfilata e lasciata sul palcoscenico per tutta la durata dell'opera, adagiata e vuota sul pavimento lucido, come il baccello abbandonato della crisalide che si è trasformata in individuo adulto, che compie un’evoluzione interiore scoprendo l'ignoto. Ma è lei a scoprire l'ignoto, o forse è lui a scrutarle nell'abisso dell'anima? come un enorme occhio che la fissa dall'alto, un occhio/oblò che ci guarda, ma che ci mostra anche un languido e desolante paesaggio alieno, fisso nel buio della scena.
La protagonista divide il palco con altri due personaggi, che non lasciano mai la scena, ma che la invadono come se fossero dei fantasmi, una sorta di proiezione della coscienza della stessa protagonista, confusa da tutto quello che le succede: il grande oceano che costituisce il pianeta Solaris riesce a generare individui in carne ed ossa, plasmandoli dai sogni e dai ricordi dei membri dell'equipaggio, i Visitatori, che come cuccioli appena nati non hanno alcuna coscienza di sé, vivono come estensioni biologiche di chi li ha sognati, e quindi evocati. La scoperta confonde la Kelvin che quasi simmetricamente da un lato viene spronata a indagare sul misterioso fenomeno dal saggio Snaut, interpretato da Werner Waas, che incarna la coscienza scientifica, la razionalità, e dall'altra parte la voce distruttiva del disincanto, del fallimento della ricerca interiore che serve solo a portare in vita i mostri della nostra coscienza, quella della scienziata Sartorius (Sandra Toffolatti), donna disperata il cui visitatore è un bambino nella culla, incarnazione del senso di colpa e della frustrazione per un figlio morto. Al centro, a dividere lo spazio emotivo della psicologa Kelvin, la sua visitatrice, Harey (Giulia Mazzarino), la materializzazione del rimpianto più grande di tutti, la giovinezza. Harey è la fidanzatina adolescente della psicologa, che arriva con lo zainetto carico dei loro cd, usati come album dei ricordi, le cui canzoni sono sgranate come un rosario sonoro che riportano la protagonista ad un passato che non può più tornare, perché morto assieme ad Harey.
Il proscenio è occupato in realtà da un unico personaggio, frammentato in varie unità di dolore, che compongono un’unica coscienza, forse quella del capitano Gibarian, che dall'alto dell'oblò chiude l'atto unico dello spettacolo, con la sua arringa finale sul significato della scoperta della loro missione, una registrazione lasciata ai posteri prima del suo suicidio, unico rimedio al cancro che lo divorava giorno per giorno, il suo visitatore. La malattia che aveva ucciso la madre torna come personificazione del dolore della perdita, del trauma infantile di perdere tutte le certezze di quando qualcuno a noi caro viene a mancare, tematica particolarmente struggente per chi scrive.
Questa è la grandezza di Solaris, che lo spettacolo ha saputo cogliere: ognuno teme e desidera allo stesso tempo “il visitatore”, personificazione dei nostri ricordi dolorosi che ci plasmano, e ci rendono quello che siamo.
A noi di Posthuman è piaciuto molto, quindi ne consigliamo la visione anche ai non amanti della fantascienza, che in questo caso è solo una porta verso la conoscenza dello spettro delle emozioni umane… siete pronti a scrutare l’abisso?
Roberta G. Guardascione
Il disegno in apertura è, come di consueto, opera di Roberta G.