Lui, Zack Snyder, autore regista e produttore del forsennato ottovolante fantasy action, lo definisce (ormai l’han riportato tutti…) un «Alice nel Paese delle Meraviglie con le mitragliatrici».
Slogan ad effetto ma abbastanza calzante: cinematograficamente, si potrebbe definirlo più precisamente un Inception che contiene un Moulin Rouge, in cui – invece dei balletti – assistiamo a vorticose coreografie frullate dagli ormai inevitabili modelli di Kill Bill e Matrix; e, sì, in parte anche alla contro epica degli imperfetti supereroi di Watchmen, precedente capolavoro (e diciamolo!) dello stesso Snyder.
Di contorno, un po’ di robottoni alla I, Robot, zombie prussiani scongelati dall’Alba dei Morti Viventi (ne ammirate un esemplare qua sotto a sinistra) e… e… e…
Troppo? Forse. Il dubbio affiora, non si può negarlo. Anche perché il tonitruante videogame a matrioska onirica di Zack, a parte shakerare tutti (ma proprio tutti) i referenti irrinunciabili del cinema d’azione degli ultimi 15 anni (qualcuno ci liberi dalla katana e dalle mitragliate riprese da sotto la cascata dei bossoli al rallenty!), manca purtroppo di alcuni degli ingredienti fondamentali che han fatto di quei film pietre miliari dei rispettivi generi.
Sucker Punch non ha in effetti una forza visionaria rivoluzionaria come quella dei Watchowsky, che reinventarono di sana pianta l’immaginario s/f cyberpunk; desidera intensamente essere un blockbuster “ma con un senso”, pur senza contare sulle finezze di sceneggiatura di un genio come Alan Moore. Né una scrittura dei dialoghi affilata e irresistibile come quella di Tarantino.
Il suo baroque-mélo non è raffinatamente ironico e stylish come quello di Baz Luhrmann. E, piuttosto che avviluppare lo spettatore nelle spire oniriche escheriane come fa Cristopher Nolan, il regista preferisce stenderlo con un luna park video sonoro che, se di Inception avevamo criticato i troppi inseguimenti con sparatorie, rischia di farli sembrare notturni di Chopin!
Allora, una trasheria da buttare? No, in effetti questo non si può dire, anche se sarebbe semplice attaccare Sucker Punch all’arma bianca (come fanno le sue sexy guerriere); ma sarebbe pure ingeneroso.
Perché l’opus magnum di Snyder una sua grandezza – foss’anche il sublime del trash – ce l’ha: di grana grossa, certo, ma al 44enne regista americano non si può disconoscere un robusto senso dello spettacolo. Lo dimostrano le molte foto che corredano il nostro articolo, per darvi solo una vaga idea dello strabordante immaginario visivo della pellicola. Lo dimostrano narrativamente il prologo sulla tragedia familiare che dà inizio alle disavventure di Babydoll, rallentato e muto come l’incipit da manuale di Watchmen, ma dalla sintesi bruciante. E anche il finale, che arriva inatteso e ti spiazza, quando ormai t’aspetteresti il classico happy ending supereroi stico hollywoodiano.
Certo, poi ci ripensi e realizzi che anche la morale che ti passa l’autore – sostanzialmente, “sei solo tu che guidi la tua vita” – non è in fondo che l’ennesima declinazione dell’individualismo yankee in chiave mistico-zen (ma in fondo la stessa etica animava anche Kill Bill e Matrix, se vogliamo). Comunque il lieto fine stucchevole ci viene risparmiato, e in un prodotto concepito per platee oceaniche questo non è poco.
Inoltre, per quanto fumettistica, l’odissea onirica di Babydoll qualche corda di commozione va detto che la tocca. È dura ammettere di essere così esposti a “colpi” (punch) emotivi tanto “bassi” ma così è: il finale del film ha una zampata autoriale che si fa ricordare. E riscatta parecchie sparatorie che non si capisce come mai debbano essere la componente principe (se non unica) dell’immaginario onirico di un americano… ricordate? Lo si diceva già a proposito di Inception, e pensare che qui le menti in gioco son tutte di giovani donne… e va bene che la verisimiglianza psicanalitica non è certo l’obiettivo numero uno della pellicola, questo è certo!
È storia vecchia ormai, però pensate: Snyder trasforma il teatro-bordello in “contenitore onirico” della visione di Babydoll e delle sue compagne, che trasfigurano la propria reclusione in manicomio nella prigionia in questo lussuoso postribolo per ricchi laidi (forse avendo prima studiato il Parlamento italiano?). Eppure, come in ogni blockbuster USA che si rispetti, in un posto simile la seduzione è appena accennata, non traluce nemmeno un capezzolo, persino gli irresistibili balletti delle teen-sirene ci sono negati. Perché vengono trasfigurati in avventure da videogame, in cui le eroine sparano come cowboy e tagliano teste come ninja.
È una battaglia persa, ma bisognerebbe tornare alla carica per far capire anche ai produttori americani che, se ci mostrano una 20enne che seduce un mafioso, noi (e forse non solo noi italiani avvezzi) non ci turbiamo più che vedendo 30 teste di zombie crucchi divelte dal tronco!
Ok, non incrudeliamo troppo su un problema che non riguarda solo Snyder (lo stesso Tarantino deve autocensurarsi sul sesso se vuol mantenere visibilità major… ma come avrà fatto allora Aronofsky con Black Swan?!).
Resta invece da dire della notevole colonna sonora, composta in puro Luhrmann-style: canzoni famose (Sweet Dreams, Where’s My Mind dei Pixies, Search’n’Destroy di Iggy, Bjork, White Rabbit dei Jefferson Airplane, Tomorrow Never Knows dei Beatles etc.) interpretate da voci nuove (Skin, Emiliana Torrini, Alison Mosshart…), o dalle stesse attrici del cast (si critica tanto Hollywood, ma poi i suoi attori sanno fare tutto e bene, non solo saltare e sparare, ricordiamoci sempre anche questo!).Il tutto è prodotto dal guru Marius De Vries, già con Baz Luhrmann proprio per Moulin Rouge! e Romeo + Juliet. Un cd da procurarsi al volo, anche indipendentemente dal film.
E un film… un film che farà discutere, che s’attirerà critiche e dileggi, ma probabilmente incasserà comunque parecchio. E che – come già il 300 di Snyder – anche se lo accusi di grossolanità ed elogio della violenza, poi una sera per caso te lo passano in tv quando tu neanche lo sapevi. Allora ti fermi dicendoti ‘mi rivedo questa scena e poi…’. E poi probabilmente finisci per arrivare ancora una volta fino in fondo.
Mario G