Sembrano attraversare un felice momento i musicisti delle sei o quattro corde italiani sulla scena internazionale, nella fattispecie quella di un piccolo “blues revival” che sembra attraversare la frammentata scena del rock attuale.
Partiamo dalle stelle: come sapete, i Rolling Stones, monumenti (tuttora miracolosamente) viventi dello storico blues revival – che a metà ’60 dilagò per Londra, donando imperitura gloria a loro, John Mayall, Jeff Beck, Eric Clapton (coi Cream) e poi agli Who e ai Led Zeppelin – sono tornati alle radici e il prossimo 2 dicembre sveleranno al mondo il loro nuovo album, Blue & Lonesome, una raccolta di standard blues (di cui per ora si conosce il singolo Just Your Fool di Buddy Johnson) che riporta l’ormai ultra 70enne ditta Jagger&Richards alle origini dei loro primi due album.
Le premesse sono buone, sentiremo. Quel che intanto possiamo festeggiare con sicurezza è che il loro succitato collega Jeff Beck – nel ’68 possibile sostituto di Syd Barrett nei Pink Floyd, poi di Brian Jones nelle Pietre, oggi bella pasta di 72enne dal fisico ancora giovanile e dall’indole indomita – ha pubblicato quest’anno l’undicesimo album di brani inediti della sua aurea carriera di manico fra i più virtuosi della storia della chitarra elettrica: si chiama Loud Hailer (copertina qui accanto) e il Beck l’ha suonato insieme a un duo di ragazze inglesi belle grintose che potrebbero essere sue nipoti e immagino abbiano contribuito non poco ai toni secchi e rabbiosi che predominano nel disco, lontano anni luce dall’autocelebrazione senile che un gigante come Jeff potrebbe pur permettersi alla sua età: ascoltatelo, se lo mixate col recente Lady in Gold che i (circa 30enni) Blues Pills hanno appena portato in un notevole concerto all’Alcatraz, non sentirete scarto.
Il duo (qui sopra con Beck, ma che senza di lui trovate in rete semplicemente come Bones) è formato da Carmen Vandenberg, che accanto al leader gioca il ruolo di seconda chitarra, e appunto la Rosie Bones del nome, che canta con grinta che si fa amare al primo ascolto (e non scema ai successivi). Quella con Beck a quanto pare è la loro prima uscita discografica, ma su YouTube potete vederle suonare dal vivo il brano ironico che ispira il titolo del nostro articolo: Girls can’t play guitar, in cui le sei corde le imbracciano ambedue le pupe (e a cui si riferisce la foto live qui a destra). Qualche altro brano (tra cui una cover di Helter Skelter dei Beatles) lo trovate sul loro sito e direi che fanno alzare l’attesa per un album targato Bones.
Ma non avevamo iniziato parlando di musicisti italiani? Infatti, nell’album di Beck la sezione ritmica è appaltata a due nomi chiaramente nostrani, anche se purtroppo al momento non sappiamo dirvi di più su di loro: Davide Sollazzi (drums) e Giovanni Pallotti (basso). Come italiani sono il chitarrista Asso Stefana (già con Capossela e Ribot) e il polistrumentista Enrico Gabrielli (Calibro 35 e Mariposa), che accompagnano PJ Harvey (dagli anni ’90 regina della falange del blues notturno e postpunkizzato alla Nick Cave) nel suo ultimo, notevole The Hope Six Demolition Project: Gabrielli (al clarinetto basso) è stato molto applaudito anche nel recente concerto milanese (ancora all’Alcatraz, a sinistra accanto alla Harvey) della risorta cantautrice inglese, nella ricca live band (foto a destra) di ben nove elementi coi fidi John Parish e Mick Harvey.
Insomma, sembra che un basso italiano vada come la pizza ormai, no? Anche perché pare vi siano segnali d’interesse da parte di un’etichetta britannica per il prossimo album che un’altra pregevole bassista come Caterina Palazzi (in concerto nella foto a sinistra) si accinge a registrare e che sta già abbondantemente suonando dal vivo: nel suo recente passaggio alla milanese Santeria (ancorché in una situazione acustica poco premiante), la “Mingus romana” ci ha confidato che il seguito di Infanticide (dal titolo ancora segreto) sarà dedicato ai personaggi cattivi del mondo Disney, come simboli del passaggio dall’infanzia alla più chiaroscurale maturità. I brani sono ormai pronti e le registrazioni sono previste per il prossimo maggio: QUI ascoltate un’ardente anteprima appunto live (al Disorder Festival) di Malefica, il brano dedicato dai Sudoku Killer alla strega de La Bella Addormentata Nel Bosco, nel loro caratteristico sound da “Lounge Lizards nostrani”, che – dice la band leader – tende a distanziarsi dai solismi del jazz classico in vista di una sempre maggiore compattezza di gruppo.
Dalle star siamo all’underground, ma chi legge Posthuman deve poter scoprire cosa si agita d’interessante intorno a noi, non solo le gesta dei mostri sacri: per questo la copertina che illustra questo articolo è dedicata al recente album di una giovane chitarrista ferrarese, che al secolo risponde al nome di Sara Ardizzoni ma alla sei corde si firma Dagger Moth (l'Acronicta lobeliae è una farfalla) e tra l’altro ha collaborato anche al progetto Tinnitus Tales delle Forbici di Manitù con la suadente Surface Noise). S’intitola Silk Around the Marrow il suo secondo album autoprodotto e, sotto seducente copertina (foto di Davide Pedriali), ci presenta una talentuosa chitarrista elettrica one-woman-band, che scrive, suona e canta 10 brani in cui è sempre lei a creare il minimale soundscape ritmico, con pochi sample, qualche synt e delicate diavolerie elettroniche, che all’avvio del cd nel lettore mi hanno a tutta prima ispirato un lontano ricordo dei Tuxedo Moon (tra l’altro in tour all’Arci Ohibò di Milano il 29 novembre).
Passo falso: l’assoluta predominanza della chitarra nel sound dell’autrice spinge subito verso altri orizzonti, per esempio all’I Advance Masked di Robert Fripp/Andy Summers, per le sequenze minimaliste, o a una Lili Refrain, che però è più estrema come sound oltre che più evoluta dal punto di vista vocale.
A suo merito, va detto che nelle recensioni in rete ai suoi lavori si smuovano le citazioni più disparate, da Eno a Neil Young al trip-hop: vuol dire che la miscela non è facilmente inquadrabile (e consoliamoci, non solo per noi), quindi – piaccia o no – abbastanza originale da interrogarci a più riprese. Alla fine di ripetuti ascolti, arrivato al vertice del disco – la lunga Event Horizon con il contributo (solo) vocale di un altro grande chitarrista come Marc Ribot – personalmente ho concluso che il paragone più prossimo del suono di Sara è quello alle atmosfere astrattamente desertiche del Ry Cooder elettrico, diciamo della colonna sonora di The End of Violence di Wim Wenders (notevole e dimenticato album del 1997 con ospiti Jon Hassel e James Blood Ulmer!).
Nella recensione al suo disco, il mensile Rockerilla cita (tu guarda) proprio PJ Harvey, Cat Power, Anna Calvi e Shannon Wright, mentre Rumore parla di “varianti intimiste in odore di blues e derivati”.
Il cerchio si chiude qui. Per ora. Le ragazze “sanno suonare la chitarra”.
Buoni ascolti.
Mario G