Diciamola tutta, Rabbit Hole (attualmente nelle sale italiane) è uno di quei film che non ci aspetterebbe mai di trovare recensito su Posthuman: anni luce dalla bencheminima idea di cinema fantastico, horror, surreale, formalmente avanguardistico o solo alternativo.
E anche da ogni idea di noir, benché la promozione del film alluda a un "rapporto" tra la madre spezzata dalla perdita del figlio (Kidman, già in predicato di statuetta) e il ragazzo che ne è responsabile, che lascerebbe presagire risvolti appunto thriller o morbosi, in realtà lontanissimi pure quelli dallo svolgimento del film; il quale si mantiene sui binari di un solido realismo intimista, diciamo mainstream-pensoso. Ossia, quando gli sceneggiatori hollywoodiani sembrano dirsi "dài, facciamo un film alla francese, con un po' di dolore e di emozioni vere, da gente matura, ché se una come la Kidman ci sta ci scappa pure l'Oscar" (invece alla fine vinto dalla Portman per Cigno Nero).
La Kidman c'è stata, pure come produttrice. E, a dispetto della nostra ironia un po' snob sul tragedione americano-che-pensa, il risultato è impeccabile - va detto - anche per chi abitualmente non ama il genere; ed evita praticamente tutti i vicoli ciechi e le cadute di tono che attendono al varco abitualmente questo tipo di pellicole dolenti.
Noi, consci della nostra debolezza in quest'ambito, ne abbiamo affidato il commento a una firma che debutta su Posthuman proprio con questa recensione: Dinah Nerino, sicuramente un'amante del cinema d'introspezione psicologica più di noi; bando ai preliminari dunque, a lei la parola.
Se siete alla ricerca di qualcuno che vi dica come uscire fuori dalla tana del bianconiglio, questo non è un film adatto a voi.
La storia di Becca e Howie è infatti piena di domande ma di poche risposte.
Dopo la morte del figlioletto, i due coniugi sono costretti a confrontarsi , in un climax di humor nero, con quelle che sono le angosce esistenziali, un vuoto incolmabile, il senso di colpa dell'avvenuta perdita e i comportamenti surreali di chi, in quel rabbit hole, c'è già finito e non sa più come venirne fuori.
E' così che i due personaggi intraprendono un viaggio a poche miglia di distanza da se stessi, nel quale si scontreranno con altri “parallel universe”, universi paralleli, vite vissute da una umanità che sta tentando di risolvere il proprio dramma esistenziale (il tema del graphic novel che appunto sta terminando di realizzare il ragazzino responsabile della morte del figlio di Kidman-Eckhart, che dà il titolo al film, NdR).
Subentrano così la bislacca Nat, mamma di Becca, la cui unica colpa è quella di dire e fare cose sbagliate nel momento meno opportuno e l'altra sua figlia, Izzy, esuberante, immatura e inaspettatamente gravida proprio quando sua sorella ha perso un figlio.
Ne scaturisce un magistrale ritratto che vede i legami familiari contribuire alla dissoluzione della famiglia stessa, ma al contempo rappresentare l'unico aiuto che possa, forse, realmente allontanare dall'autentica disperazione.
Disperazione che aleggia in tutto il film e che porterà i personaggi ad affidarsi a propri appigli interiori: chi la religione, chi la scienza.
Il postulato di Leibniz che vedeva questo come il migliore dei mondi possibili viene, allora, messo in dubbio da Becca che matura sempre più, dopo aver conosciuto Jason, ilragazzino-colpevole raffinato autore di fumetti, l'idea che forse “in qualche altro mondo un'altra lei e un altro Howie non stiano patendo la sofferenza di questo lutto”.
Ma, fantasie a parte, consci ormai che il dispiacere vada vissuto e non rinnegato (il rischio che si corre è quello di precipitare ulteriormente in se stessi), Becca e Howie, non senza qualche fraintendimento, tenteranno di andare avanti, provando a lasciarsi dietro i rimorsi e i rancori, i disegni, i giocattoli e i vestitini del perduto figlio Danny.
Girato a New York e diretto da John Cameron Mitchell (già regista di Hedwig - La diva con qualcosa in più e il molto discusso e pseudo-trasgressivo Shortbus) il film vanta un ottimo cast tra cui spiccano appunto Aaron Eckhart e l'incredibile Nicole Kidman (insieme nella foto, candidata all'Oscar come miglior attrice.
Non nuova alla tematica del lutto, della perdita e della repressione dei sentimenti, Nicole aveva già potuto sperimentare l'abbraccio ad un personaggio quasi stoico nel Film Fur - Un ritratto immaginario di Diane Arbus.
Ma se in quest'ultimo le cineprese poco si soffermavano sull'eloquenza dei gesti e della mimica facciale - colpa anche di una fotografia attenta soprattutto al background scenografico pensato nei minimi dettagl - in Rabbit Hole accade proprio il contrario, merito questa volta di uno stile estremamente naturalistico, a volte quasi minimalista, che punta tutto, dunque, sulla teatralità dei personaggi piuttosto che sulla loro collocazione scenica.
Non è un caso, infatti, che Rabbit Hole sia una trasposizione cinematografica dell'acclamata pièce teatrale firmata dal premio Pulitzer David Lindsay-Abaire.
Un elogio, dunque, dell'interno, delle sensazioni e delle passioni che divorano in modo silente l'intimo di ogni creatura che, spaesata, continua a chiedersi come affrontare, anche domani, la sofferenza.
Dinah Nerino