Un uomo, una donna. La coppia.
Sbandierato baluardo di tutte le chiese e i partiti, fragilissima intersezione di due dimensioni parallele costituzionalmente non (o mal, o con difficoltà) comunicanti. Verrebbe da dire “dickiane”, se il riferimento non ci portasse lontano. Crocevia di passioni, linguaggi, scambi, abitudini quotidiane, la coppia è un esile equilibrio che dispone (forse) di un modo per durare ma certo ne ha mille per crollare. Specie nella nostra “Era dell’Acquario Individualista”.
Due dei modi possibili hanno incidentalmente incrociato il mio cammino nell’arco di due soli giorni, ispirando un difficile ma interessante collegamento fra due opere peraltro diversissime fra loro, sia per linguaggio che per trama e temi: Sushidio, lavoro teatrale di Teatro in Polvere, in instabile equilibrio tra ardita prosa e teatro danza; e Antichrist, nuovo controverso film di Lars Von Trier, appena uscito nelle sale dopo le nefaste critiche a Cannes.
Così, forse casualmente, forse connettivisticamente (il caso non esiste, tutto è connesso a tutto?), due visioni concomitanti hanno generato un ponte, non meno improbabile e fragile della coppia contemporanea, fra due opere che in assoluto più distanti non si potrebbe.
“Piuttosto che dimenticare l’amore che ti porto… ho finito col dimenticare te”
In Sushidio, il regista-interprete Valentino Infuso narra senza narrare l’estraneità di una coppia attraverso lo spaesamento di un luogo estraneo alla cultura di ambo i protagonisti-amanti (occidentali): il ristorante giapponese kaiten-sushi, sul cui nastro scorrevole viene trasportato il cibo, talvolta persino i corpi degli interpreti (il regista medesimo e la compagna Valentina Fogliani), pupazzi giapponesi e modellini di metropoli, in un caleidoscopio di situazioni filtrate da un ricchissimo bagaglio di citazioni (più o meno riconoscibili) dall’intera storia del cinema nipponico: da Ozu e Kurosawa a Battle Royale (Fukasaku) e Visitor Q (Miike), da Godzilla ai manga e oltre.
Attraverso questo vasto armamentario culturale – e un’altrettanto ricca macchineria scenica, irta di video, maschere (dello stesso regista) burattini, ombre, musica, canto, gesto coreografico e (divertente) coinvolgimento del pubblico – Infuso evoca un’estraneità quotidiana: sostanzialmente, l’eterno ritorno delle situazioni per cui la coppia di protagonisti si ama e poi immancabilmente si perde nella reciproca incomprensione, riscoprendosi come nuova per poi ricadere sempre nelle stesse trappole della vita a due (gelosia, rinfacciarsi di mancanze etc.).
Lars Von Trier invece mette in scena una crisi di coppia assolutamente fuori dall’ordinario, frutto di una coincidenza eccezionale quanto tragica.
Preciso qualche elemento della trama perché, nella congerie d’idiozie festivaliere che anche voi potreste aver letto, è ben difficile capire di cosa parli il film, già di suo linguisticamente complesso e stratificato: una coppia perde il figlio piccolo per un incidente domestico occorso mentre i genitori facevano l’amore (foto a destra).
“Il caos regna sovrano”
In un incedere onirico e visionario, superbamente fotografato (il prologo rallentato in b-n su cantata di Handel, le spettrali camminate nel bosco, foto a sin.) e con incursioni nel fantastico memori anche del j-horror (le manifestazioni pittorico simboliste della natura, gli animali che parlano etc.), s’intreccia convulsamente una quantità di temi: ad un primo livello sì, la crisi della coppia (lei impazzisce, altresì rimproverando a lui di considerarla “solo in quanto paziente”).
Più in profondità, una visione della natura “anti-new age”, maligna (il vento “è l’alito di Satana”) e alveo del perenne morire di ogni creatura vivente (“ora sento il pianto di ogni cosa che muore”, cito a memoria); al fondo, un controverso rapporto con il sacro, in fin dei conti da sempre al centro delle tormentate vicende delle eroine vontrieriane.
Lei aveva capito d’aver generato l’anticristo (il bimbo aveva piedi caprini)? Oppure la sua follia porta in superficie quel lato oscuro, ctonio e malvagio della natura femminile, lo stesso che in passato l’Inquisizione puniva nelle streghe (e che lei stava studiando per la tesi)? Dunque l’“anticristo” è la femmina? E il regista è realmente antireligioso come si dichiara o solo misogino e in realtà controriformista come lo dipingono i critici maligni? Come in ogni opera “aperta”, a voi la sentenza.
Il film di Von Trier è una spirale tragica verso un finale “trionfo della morte”, tanto figurativamente sublime quanto concettualmente oscuro e aperto a diverse interpretazioni da parte di ciascun singolo spettatore.
Nella commedia amara di Infuso/Teatro in Polvere prevalgono invece i toni ironici o agro-dolci, ma anche dalla circolarità dell’eterno ritorno non c’è via di scampo, se non attraverso il suicidio, per quanto affettuoso.
Riprendendo quindi l’improbabilissimo confronto fra le due opere, se dovessimo trarne un (non meno sbilenco) segnale sociologico, sarebbe quello di una diffusa sfiducia nelle chance di dialogo fra i sessi; ma qui cadiamo nelle banalità giornalistiche per cui ci fermiamo: è riduttivo fare di un’opera un saggio sulla società in chiave di simbolo.
Una fantastica gabbia di matti?
Torniamo invece un attimo sulle chiavi di lettura: ma “aperto a diverse interpretazioni” non dovrebbe essere sempre lo scopo dell’opera d’arte? A leggere il coro di critiche fra lo stizzito e il derisorio seguito all’anteprima di Cannes si direbbe proprio di no; il che ci riporta a pensare, guarda un po’, alla conversazione avuta con Valentino Infuso al termine del suo spettacolo allo spazio ex Ginori: l’ostracismo diffuso su Von Trier dimostra infatti che – quando l’opera è “difficile”, ossia offre diversi significati in maniera non univoca e non “ben serviti sul piatto” – la critica giornalistica si rivela inutile (per non dire dannosa), bollando l’autore con dileggi sugli aspetti più morbosi (qui le scene erotiche e la violenza della follia) e personalistici (Von Trier fa un film “matto” per dar voce alle proprie crisi depressive). Sicchè, se l’autore è noto (come appunto Von Trier) va massacrato, se lo è meno (come Infuso o chiunque di noi) basta accantonarlo nel silenzio.
Ergo, passassero oggi a Cannes un Bunuel del Chien Andalou o uno Jodorowky della Montagna Sacra (opere oggi assurte allo status di classici indiscussi), susciterebbero sempre le risatine beote e i fischi tributati ora ad Antichrist, come due anni fa a Inland Empire di David Lynch? Probabilmente sì.
Il fatto è che l’occhio “medio” non accetta la narrazione non lineare e, proprio quando più avrebbe bisogno di strumenti interpretativi, la critica non è in grado di offrirglieli, rafforzando in tal modo i pregiudizi (“è un’opera astratta, non vuol dire niente”).
Allo stesso modo, non si sa vedere il significato “alto” dietro una narrazione di genere fantastico, per esempio, che viene immediatamente bollata come “di serie B”. Non vi sembra esattamente lo stesso processo di banalizzazione? Tranquilli, di tutto ciò torneremo a parlare ampiamente in un prossimo servizio su NeXt.
Intanto, voi che invece del “gusto medio” giustamente ve ne fregate, chiudete quel giornale e cercate di vedere alla prima occasione entrambe le opere.
Intanto, essendo le repliche di Sushidio terminate, vi segnalo la ripresa del Teatro Cucina di Teatro in Polvere a Milano, dal 13 al 21 giugno allo Spazio AL-KIMIYA FUSION LAB.
Mario
Su CiaoRadio potete ascoltare l'intervista di Debora Montanari a Mario nel suo programma Il Cinema alla Radio.