“Non è strano aver creato qualcosa che ti odia?”
(Ava a Nathan nel film)
In principio fu Blade Runner, ancora una volta e sempre. O forse no, fu Mary Shelley col suo Frankenstein e poi il Golem, Metropolis etc. Ma è stato Philip Dick (quindi Blade Runner) a porre l’inquietante domanda: se una macchina fa tutto quello che sa fare un uomo e si pone le medesime domande su senso e destinazione della propria esistenza, chi stabilisce dove finisce la “vita” e dove comincia la “macchina”?
Dal film-capolavoro di Ridley Scott, il tema ha percorso le evoluzioni della fantascienza recente, dal ciclo anime di Ghost In The Shell allo sdolcinato A.I. di Kubrick-Spielberg al mediocre Natural City coreano, dal romanzo e-Doll di Francesco Verso (copertina a destra) all’ancora inedito, poetico Piccoli Fuochi di Nicoletta Vallorani (sequel di Eva, di cui vedete la cover a sinistra), con la declinazione in chiave ero/snuff dei cyborg al servizio dell’uomo.
Oggi Alex Garland (sceneggiatore di diversi film di Danny Boyle) fa fare un deciso passo avanti al dibattito con Ex-Machina, suo debutto in cabina di regia, abilmente imperniato sul sottile confronto psicologico a tre fra Nathan (giovane genio informatico simil-Jobs, miliardario proprietario del motore di ricerca Blue Book), il suo giovanissimo dipendente Caleb, brillante programmatore invitato nell’algida dimora fra le foreste (una sorta di iper cablata villa di Wright) a testare Ava, terzo vertice del triangolo filosofico sentimentale del plot. Ava è infatti un cyborg sviluppato da Nathan, il quale vuole che Caleb la sottoponga al test di Turing, ossia verifichi se dialogando con la macchina l’uomo può smarrire la percezione di avere di fronte appunto un cervello artificiale dimostrandone così l’autonoma presa di coscienza.
E Caleb la smarrisce eccome, sviluppando con Ava proprio l’empatia che Nathan s’aspettava: il timido programmatore addirittura s’innamora del cyborg, pur palesemente “artificiale” sul piano estetico (come vedete dalle foto ai lati). E noi con lui soffriamo quando il film ci mostra il laboratorio “di Barbablu” dove sono stati creati l’affascinante cyborg e i suoi sfortunati prototipi, impietosamente appesi negli armadi come abiti smessi, smembrati delle parti riciclate per l’ultimo modello. Che però non sarà l’ultimo: Nathan ha già in mente la prossima generazione, per cui Ava è destinata ad essere “spenta” e riassemblata. Caleb non sa più accettare che la sua intelligente e sensibile “amica” venga trattata come il “manufatto” che è e – nei black out che spengono temporaneamente le onnipresenti videocamere con cui Nathan registra tutti i loro dialoghi – progetta di fuggire dalla villa-prigione con lei.
Ma il gioco si complica: mentre Ava gli svela poco a poco la reale crudeltà del suo spietato demiurgo Nathan (non a caso il titolo del film allude alla tecnica di comparizione in scena degli dèi nella tragedia greca), questi – quando commenta a tu per tu con Caleb gli sviluppi del test – ribalta la situazione. Il cyborg è in realtà programmato per cercare l’empatia dell’umano: insomma, Ava sta facendo innamorare di sé Caleb come strategia di sopravvivenza, altro che “sentimenti spontanei”.
A chi credere? Non ve lo sveleremo, ovviamente, perché a questo punto l’indagine psico filosofica, fin qui dalle cadenze studiatamente rallentate, accelera il ritmo in direzione di una svolta thriller che porterà ad un finale drammatico e non privo di spargimenti di sangue. Che vi lascio scoprire in sala perché contiene anche l’amara risposta al quesito sull’autocoscienza di cui sopra, che ricorda un po' il nerissimo finale di Modello Due, ancora del genio Dick.
Da quell’atmosfera giustamente rarefatta, va detto che Ex-Machina tira fuori anche diverse sequenze geniali: Nathan che balla la disco col robot Kyoko, sorta di muta slave adibita a mansioni domestiche (e, s’intuisce, erotiche); quest’ultima che si “spoglia” del proprio rivestimento di pelle (foto a lato) mostrandosi nudo robot, o Caleb che, lacerato dal dubbio, si lacera per davvero un braccio con la lametta per verificare (scena molto dickiana) se anche sotto la propria pelle non corrano dei circuiti integrati. E tocca temi non banali, oltre ai confini di “vita” e “coscienza”: come il fatto che Nathan, Grande Fratello digitale, spieghi d'aver sviluppato il cervello di Ava fondendovi i miliardi di dati pescati dai social network, dai video, da tutto quello che il suo motore di ricerca ha raccolto in rete dell'intera umanità. Oppure che nel film non compaiano donne “umane” e che quindi i due maschi riescano ad imbastire dei rapporti con l’altro sesso solo in forma “surrogata”; o che dai sofistici dialoghi fra i tre personaggi non si riesca mai ad arrivare alla “vera verità” di ciò che sta accadendo, che si desume solo dalle riprese delle videocamere-spia, come se solo la tecnologia riuscisse a sopperire a un’incapacità (o non volontà) di relazionarsi sinceramente. Incapacità freddamente stigmatizzata dalla stessa Ava che, in uno di quei video, chiede al suo “padre padrone” Nathan “Non è strano aver creato qualcosa che ti odia?”.
Tutti in parte gli attori: Domhnall Gleeson (Caleb), Alicia Vikander (Ava), Oscar Isaac (Nathan) e Sonoya Mizuno (la silente ma espressiva Kyoko), nessun volto del tutto nuovo ma nessuna superstar, e questo a mio parere è un altro pregio del film, in cui non guardi i volti per la loro fama (o per confrontarli con altri ruoli che hanno interpretato) ma solo per quello che fanno in scena. E qui fanno tutti misuratamente bene.
Fra i viaggi temporali dell’ottimo Predestination e il reboot di Terminator, sembra che l’estate 2015 sia molto propizia alla fantascienza. Fatevi raggelare una torrida serata nella glaciale magione di Nathan “il superuomo demiurgo”, non ne uscirete delusi. A mio parere, con Interstellar e Predestination – sui rispettivi temi – forma un trittico imperdibile.
Mario G