Si riaccendono le luci in sala, ma il silenzio, che per qualche istante pare dilatarsi, persiste. E’ la prima stampa di Fortàpasc, cronaca dell’omicidio di Giancarlo Siani, giornalista del Mattino, avvenuto nel settembre del 1985 sotto casa sua, nel quartiere residenziale del Vomero, Napoli.
E non è certo scrivendo del suo quartiere che si guadagna dieci colpi di pistola a bruciapelo, e nemmeno perché ha la stoffa dell’eroe. Giancarlo Siani, semplicemente, ama il suo lavoro e ama farlo al meglio. Né più, né meno. E quando il tuo lavoro è raccontare i fatti di cronaca di una città in cui polvere e sangue si mescolano sulla strada, senza quasi creare sgomento, la faccenda si fa più delicata.
Lo stile netto, pulito senza sbavature né scivoloni retorici o moralistici con cui Marco Risi racconta i suoi ultimi quattro mesi di vita, quelli che gli sono valsi la condanna a morte da parte dei potenti la cui sedia aveva fatto vacillare, rappresenta un omaggio notevole alla sua integrità e forse anche qualcosa di più.
Forse un invito, non il primo e ci si augura nemmeno l’ultimo, rivolto a chi dell’informazione fa il proprio mestiere, a farlo con coscienza, ovvero con la piena consapevolezza del valore e della portata del proprio ruolo. Chi si fa portavoce di ciò che accade media tra l’evento e il pubblico/popolazione tutta che altrimenti ne resterebbe all’oscuro, ne condiziona le impressioni, l’opinione e spesso le scelte. E in quella posizione privilegiata è inevitabilmente soggetto a pressioni da parte di chi quelle scelte vorrebbe poterle monitorare o peggio manipolare.
Quel che Marco Risi rende del giornalista Siani è l’estraneità a questo perverso meccanismo. Giovane borghese e studente universitario, alla vita comoda preferisce infilarsi nei quartieri “caldi” della vicina Torre Annunziata per raccontare, senza omissioni né pelosi tentativi di accattivarsi simpatie, gli eventi che in quei vicoli si consumano. E questo trattamento di par condicio vale tanto per le famiglie camorriste e la pubblica amministrazione, ad esse evidentemente collusa, quanto per la forza dell’ordine che tenta disperatamente di arginare un fiume in piena con paletta e secchiello.
Perché non esisterebbe camorra, né mafia senza il potere costituito a proteggerla. Potere di cui Siani diventa inconsapevolmente prima strumento e poi nemico pubblico.
Interessante a questo proposito la scena, ormai sul finale, in cui, dopo aver ricevuto delle informazioni chiave sui legami riguardanti il camorrista Gionta e il sindaco di Torre Annunziata da parte di un magistrato di sua conoscenza, ma aver scelto di indagare anziché fidarsi della sua parola, Siani resta solo nel parcheggio dove il magistrato torna a cercarlo rimproverandolo di non aver fatto come gli era stato chiesto. Gli abbaglianti di un auto lo accecano e quando può tornare a vedere l’uomo è scomparso e noi lo vediamo dall’alto, smarrito, braccia a penzoloni lungo il corpo, gambe divaricate, in una postura che mette in mostra tutta la sua fragilità.
E’ un viaggio a ritroso dalla sera del suo omicidio quello che Risi fa compiere a Siani, che racconta in prima persona, mentre lo vediamo percorrere sulla sua Mehari la strada verso casa, che avrebbe scelto di ascoltare un’altra canzone di Vasco se avesse saputo che sarebbe stata l’ultima.
E cosi facendo gli ridà voce, anche se solo per questa scena di apertura, ed è una voce scanzonata, quasi ironica.
Quello che emerge del protagonista è infatti il profilo di un ragazzo come tanti, ancora a casa coi genitori (che però non vediamo mai in scena), con una fidanzata che vorrebbe sistemarsi e lui che tituba, alle prese con un collega e amico tossicodipendente – unico personaggio di fiction – e con un capo che invece di stimolarlo lo prende a male parole. Nessun tentativo di dipingerlo come un superuomo, ciò che infatti non era, quasi a suggerire che scegliere la strada della verità non dovrebbe essere privilegio di eroi.
Molto toccante il dialogo che Giancarlo intrattiene col il suo ex capo redattore, una volta ottenuta la promozione da corrispondente per Il Mattino da Torre Annunziata alla sede di Napoli, il quale gli spiega che esistono due tipi di giornalisti: il giornalista-impiegato e il giornalista-giornalista “Io ho scelto la strada del giornalista impiegato e mi trovo bene, dai retta a me, a Torre Annunziata non c’è posto per i giornalisti-giornalisti”. Ma quel giovane ambizioso ormai c’è dentro fino al collo, non solo per le inchieste svolte fino a quel momento ma per aver superato quella linea di confine che separa chi decide di non farsi mettere a tacere dalla paura da chi invece chiude le porte della cella e mette i fori alle sbarre per non vederle, parafrasando Silvano Agosti.
Mi chiedo se il silenzio in sala avesse più il colore del rispetto, per chi la sua scelta l’ha pagata con la vita, o dello strisciante disagio per la professione condivisa.
Crixi L