Quando si pensa alla Svizzera vengono in mente pochi nomi famosi diversi da Gugliemo Tell: Carl Gustav Jung come padre della psicoanalisi dopo o insieme a Freud, Jean-Luc Godard come padre della sperimentazione cinematografica prima che la Francia lo innalzasse a regista nazionale, Friedrich Duerrenmatt come padre della letteratura giallistica d'oltralpe. Di Hans Ruedi Giger non parla mai nessuno, se non adesso che è morto all'età di settantaquattro anni parrebbe per le conseguenze fatali di una caduta. Si sa che esiste, si sa chi è, anzi chi era, ma nessuno lo collega alle montagne di Coira, dov'è nato, alle banche di Zurigo, alle sue strade tranquille, alle contrade immerse nella natura, ai laghi e alle vette aguzze dei monti. Nessuno è profeta in patria, e alla fine questo geniale artista svizzero è divenuto un marchio di fabbrica famoso in tutto il mondo ma non necessariamente legato alla terra che l'ha partorito. Un po' come gli Swatch.
Giger ha creato un universo folle e visionario, fatto di scompensi, stranezze, rigorosi equilibri basati su una volutissima mancanza di proporzionalità. Il suo timbro era già evidente nei primissimi lavori, una serie di schizzi e disegni intitolati Ein Fressen fuer den Psychiater (un pasto per lo psichiatra, sopra a destra) e che tentavano di illustrare la trascrizione e il procedimento interpretativo di alcuni sogni effettuato con metodo freudiano. In questi lavori sono presenti in nuce tutti gli stilemi ricorrenti nell'artista svizzero, dal sesso vissuto come un'ossessione frequente, una turba psichica irrinunciabile, alla decostruzione delle strutture organiche, che si trasmutano in congiunture mollicce, ingranaggi imbullonati, sagome oblunghe che a loro volta si compenetrano in conformazioni testicolari, intestinali, spermatiche.
L'influenza è quella di Francis Bacon con le sue crocifissioni, Salvador Dalì e Edvard Munch (vedasi Madre con bambino, 1962, qui a sinistra). Proprio qui nasce un immaginario fecondo, fatto di metafore germinali, embrioni abortiti caricati come proiettili in pericolose pistole falliche, meati siderurgici troppo simili ad aperture genitali per non occultare un qualche duplice significato.
Hommage à S. Beckett, una serie di dipinti a olio su legno risalente al 1968, costituisce forse il punto di passaggio tra l'estetica criptosurrealista delle prime opere e le contaminazioni tra materia organica e meccanica così tipiche dello stile maturo dell'artista. In questi dipinti vediamo dei grumi di carne asimmetrici, di colore rosa pallido, che si protendono come delle limacce extraterrestri all'interno di strutture metalliche e tubolari fino quasi a divenirne una macabra estensione. L'idea è quella di un corpo incompleto, fatto di tessuti spugnosi, epidermidi mutanti, dilatazioni bitorzolute, lungo le cui superfici si aprono mostruose scanalature, orifizi dall'aspetto sessuale, tentacoli di cartilagine appesi come peduncoli a ovaie volgari e sproporzionate. Ecco d'improvviso apparire bocca, lingua e denti. Il riferimento principale è di sicuro più Bacon che Beckett, ma lo spettatore più esperto, quello di cinema, non può non vedervi le stesse forme crepuscolari e tremolanti recentemente apparse nell'inquietante Slice (Vincenzo Natali, 2009).
Risalgono infatti all'anno successivo le serigrafie Biomeccanoidi, dei lavori concettualmente ricavati dalle macchine procreatrici rifornite di feto-pallottole ma di fatto già proiettati in quell'universo retroindustriale e decadente che soltanto Ridley Scott saprà riprodurre su grande schermo. Si configura così un mondo di scorie e condotti, bulloni e cavi, meccanismi idraulici e congegni dell'età dell'acciaio inquinati da superfetazioni biogenetiche. Gli anni settanta non sono che il prosieguo di questa frenetica attività di ricerca teorica, che giunge comunque al suo livello di massima raffinatezza: opere come Aleph (sopra a sinistra) e Spell (1972-1973, qui a destra) presentano tutte le caratteristiche del Giger meno fracassone e più riflessivo, quello che ha ormai saputo controllare il gusto per la provocazione gratuita per inserire le proprie ossessioni psichiche e sessuali in una semiosfera ricca di simbolismi allegorici, rimandi incrociati e colti parallelismi.
È uno scorcio su una corte di divinità blasfeme e tecnocratiche, quello inaugurato dall'artista svizzero, uno spazio futuribile in cui la fusione tra ambiente e personaggi è pressoché perfetta, ancor prima dei più celebri acrilici su carta dei tardi anni settanta e degli ottanta. Le sue creature sono bizzarre, macrocefale, coperte di maschere, innesti, pelli intarsiate di placche, loriche ed estensioni cornigere.
In Tempio dei passaggi (1974) l'abominio stravagante diviene la metafora di una sessualità perversa, maniacale e velenosissima: un grande pene contenente bambini appestati, dalle carni livide e dalle fattezze disgustose, troneggia al centro di una composizione totemica, circondata da un agguerrito esercito di satiri linguacciuti e armati, cortigiane dal copricapo regale, concubine e consiglieri deformi che emergono da uno sfondo cibernetico.
Il grande merito di Giger è però l'aver saputo inscenare un dramma della quotidianità postumana in cui l'organico finisce per essere prepotentemente onnipresente, infettando l'urbano anche quando quest'ultimo non vorrebbe che sembrare, almeno nelle intenzioni, il solo attore dell'opera. Gli acrilici dedicati a New York (foto qui sopra a sinistra) ne sono un esempio lampante. Qui l'artista di Coira paragona l'infinitesima piccolezza di un circuito elettronico, di un percorso biomeccanico, di un sistema a funzionamento autonomo, alle geometrie rettilinee, rigide e cristallizzate dei grattacieli newyorkesi, al loro continuo accapigliarsi lungo le angolature spigolose dello skyline americano, alla baruffa metropolitana di appartamenti, cubicoli e nuclei abitativi. Dal microscopico al gargantuesco, dal sotterraneo brulicante di vita allogena allo splendore neogotico di megalopoli dimenticate tra le caligini di un destino spento.
Giger coniuga le più profonde fobie della contemporaneità ai cascami visionari di un Lovecraft lisergico, ed è forse per questo che la sua prima grande raccolta si intitolerà proprio Necronomicon (1977, qui sopra a destra), un maestoso volume recante in copertina una reinterpretazione suburbana del Bafometto di Eliphas Lévi. Uno dei primi esemplari viene spedito negli Stati Uniti, e qui Dan O'Bannon lo mostra a Ridley Scott e alla 20th Century Fox. Il resto è storia.
Gli americani fanno le cose in grande, e in occasione della prima di Alien (1979) arrivano addirittura a esporre lo Space-Jockey del film (foto qui a destra), la grande razza di ingegneri alieni interamente progettata da Giger, all'ingresso del Graumann's Egyptian Theatre sul Sunset Boulevard.
L'installazione avrà vita breve perché nel giro di qualche giorno sarà incendiata da un piromane, ma Giger diventa una celebrità mondiale. Di sicuro gli va meglio che nel 1976, quando grazie all'intermediazione di Salvador Dalì era riuscito a conoscere Alejandro Jodorowsky, e a ottenere l'incarico di collaboratore e artista visivo per il film Dune (1984), in seguito diretto da David Lynch (foto a sinistra).
Oggi lo si ricorda più per i suoi contributi cinematografici che per il lavoro di artista, concept designer, progettista e architetto d'interni (menzioniamo a questo proposito il Giger Bar allestito a Tokyo, finito nelle mani della yakuza e chiuso in seguito a un omicidio, e quello più fortunato di Coira (foto a destra), arredato con grandi sedili “modello Harkonnen”, perfettamente riciclati da Dune); eppure i suoi rapporti con la settima arte non sono sempre stati idilliaci, checché ne dicano gli estimatori.
Per farsene un'idea basterebbe leggere i cartigli a cui lo stesso Giger ha affidato i propri piccoli rancori, le antipatie, le incomprensioni professionali e umane, oltre che economiche, nei confronti di chi, pur accostandosi al suo lavoro, ha tentato più volte di depistarne i consigli, scoraggiarne gli interventi, ridimensionarne le intuizioni.
La serie Alien (qui a sinistra), in tutte le sue articolazioni (dalla pellicola eponima a Prometheus, tanto per intenderci), ha di sicuro edulcorato l'aspetto erotico e visuale delle sue creazioni su carta, addomesticando quelle forme uterine tanto marcate, smussando le loro asperità e affievolendone forse la carica eversiva.Nonostante gli sforzi della produzione, le connessioni tra sessualità e mostruosità però permangono, come ha d'altronde brillantemente dimostrato Gianni Canova nel suo saggio monumentale dedicato al postmoderno cinematografico, L'alieno e il pipistrello (Bompiani, Milano 2000).
Si tratta comunque di riferimenti effimeri rispetto alle potenzialità del Necronomicon, ai suoi garbugli di tubazioni, dedali spermatici e condutture ovariche, segno e sintomo dell'impreparazione del pubblico di fronte alla pornografia applicata all'arte. Forse l'artista ha avuto modo di rifarsi soltanto con la creatura di Specie mortale di Roger Donaldson (1995, vedi foto in apertura) e Species II di Peter Medak (1998), vero e proprio alter ego al femminile dell'alieno realizzato per Scott.
Infatti le delusioni di Giger sono destinate a ripetersi, a partire dal secondo capitolo della saga di Poltergeist per arrivare al bizzarro progetto Killer Condom (Kondom des Grauens, 1996). Il film tratto da un fumetto di Ralf Koenig viene diretto da Martin Walz, tedesco, e a quanto pare beneficia della produzione di Joerg Buettgereit, regista amatissimo da Giger, della distribuzione della Troma e di una selezione a Berlino. Si tratta di una commedia scollacciata con risvolti splatter che aggiorna l'atavico timore della vagina dentata: qui ad avere i denti è infatti il preservativo, che stacca di netto il pene dei malcapitati e si trasforma in un verme strisciante e cannibale. Giger tenta più volte di apportare modifiche alla sceneggiatura, e di arricchirla con suggerimenti visivi, trovate e inventive, ma la produzione non lo asseconda e il film rappresenta forse il punto più basso, seppur divertente, della sua invidiabile carriera.
Diverso, e forse paradossalmente più felice, il suo rapporto con la musica: sarà proprio con le cover degli album Kookoo (1981, qui a destra) di Debbie Harry (altrimenti nota come Blondie, cantante rock-punk e musa di David Cronenberg per Videodrome, 1983) e Brain Salad Surgery di Emerson, Lake e Palmer (1973, sotto a sinistra) che i suoi progetti vengono inseriti dalla rivista Rolling Stone tra le migliori cento copertine di questo secolo.
E non parliamo di tutta la scena underground e metal, che si avvale della sua collaborazione per spaventosi lavori di grafica in bilico tra surrealismo, pornografia ed estetica pop incrociata con l'esoterico.
Alcuni esempi? To Mega Therion (1985) dei connazionali Celtic Frost (e le due copertine per i successivi Triptykon del loro cantante T. G. Fischer, l’ultima delle quali per l’album appena uscito Melana Chasmata, cover sotto a destra, NdR), ma anche Hallucinations (1990) degli Atrocity o Danzig III: How the Gods Kill (1992) dei Danzig (e l'asta del microfono di Jonathan Davis dei Korn, NdR).
Qualunque opinione si abbia di Giger, in qualunque modo ci si voglia approcciare alle sue creazioni, resta e resterà sempre la consapevolezza di un artista che non si è adattato a una sola cifra stilistica, sia essa il cinema, la musica o il salone delle esposizioni propriamente detto, ma che al contrario ha saputo coniugare le più svariate abilità per realizzare una Gesamtkunstwerk (opera d'arte totale, NdR) metallurgica, rimasuglio, monumento e sepolcro di un'epoca cyberspaziale.
Marco Marchetti