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L'Albo Gigante N. 20 di Dylan Dog (cover in apertura) mi ha indotto a qualche riflessione, in particolare la storia intitolata Effetti Collaterali, firmata da Carlo Ambrosini (anche i disegni, secondo me non memorabili). Ma la sceneggiatura... in verità, riprende in parte un vecchio albo (Inferni) - la trovata un po' grottesca di un inferno iper-burocratico in cui un errore procedurale scatena disastri nel nostro mondo - ma quando temevo che tutto si chiudesse in un surreale un po' da macchietta arriva la svolta geniale, preannunciata nel prologo "cosmico": finali multipli, nei quali mutano ogni volta leggermente le relazioni fra un piccolo gruppo di personaggi, dirigendo il dramma in direzioni sempre diverse.
Mi fa tornare alla mente film come Sliding Doors o Smoking/No Smoking di Resnais. O anche, in un campo più decisamente s/f, a Butterfly Effect (locandina a destra), un discreto film del 2004 (che ebbe ben due sequel a me ignoti per ora) il cui protagonista scopriva d'aver appunto il potere di tornare indietro nel tempo modificando situazioni dolorose, anche se poi le conseguenze di tali "correzioni" davano vita a nuove tragedie e sensi di colpa. E ovviamente anche al più recente Source Code (uscito in homevideo proprio in questi giorni).Da qui il riferimento nel titolo del film al celbre "effetto farfalla" appunto: l'espressione della teoria del caos secondo cui il battito d'ali di una farfalla in un luogo può avere conseguenze incalcolabili anche dall'altra parte del mondo. Una formulazione che - guarda guarda - dobbiamo proprio a uno scrittore di s/f: il Bradbury di Rumore di Tuono (da cui pure fu tratto un film nel 2005).
Tutto molto, molto connettivista, rifletto. Tutto connesso con tutto. La mia mente scientificamente zoppicante si riconnette allora a un altro concetto: il "paradigma della rosa olografica" che non a caso ispirava il titolo dell'antologia connettivista Frammenti di una rosa quantica (Kipple 2008, oggi anche in ebook).Ma le mie esigue conoscenze di fisica zoppicano miseramente sull'esistenza di un reale collegamento fra la teoria del caos e il paradigma olografico. Fortunatamente mi soccorre nel cammino una vecchia amicizia degli anni del liceo: Paola De Vecchi Galbiati, esperta di eidomatica, a lungo impegnata su progetti complessi e sistemi informativi di società multinazionali. Le giro il quesito, lei mi illumina, quindi eccovi di seguito il contributo con cui debutta su Posthuman, tra scienza, fantascienza e memetica, di cui è un'appassionata.
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Un ologramma è un’immagine costruita in modo tale che l’essere umano la possa percepire come tridimensionale. Un tale oggetto di fronte a noi non è dotato di materia, ma c’è: semplicemente il nostro tatto non è in grado di percepire qualcosa di diverso dalla materia di cui son fatte le cose.
E che dire del nostro udito? Non percepiamo suoni che allarmano i nostri gatti o fanno ululare il cane del vicino. Se fossimo in grado di sentire il battito d’ali di una farfalla potremmo avvertire i nostri amici in Brasile di prepararsi ad affrontare un uragano…
Se si interviene su un ologramma, inserendo una lastra di un qualsiasi materiale nel mezzo dell’immagine 3D, si compongono due ologrammi simili, che riproducono lo stesso ologramma iniziale. Questo procedimento scatena un processo di autosimilarità e può essere ripetuto infinite volte. L’autosimilarità è rappresentata da un modello frattale: ogni componente dell’ologramma è una miniatura dell’ologramma stesso.
Quello che l’uomo ha realizzato con gli ologrammi è stato ‘riprodurre’ ciò che ha compreso della natura: per riuscire a ricostruire un’immagine 3D (il massimo della sofisticazione spaziale che i nostri sensi riescono a percepire) ogni elemento, ogni particella, ogni atomo del sistema deve avere memoria e coscienza di sé, deve contenere tutte le informazioni necessarie per sapersi adattare ai mutamenti dell’intero sistema, per poi ricostruirlo.
Aver memoria significa aver registrato da qualche parte delle informazioni.
Averne coscienza significa saperle usare per ricostruire il tutto attraverso le sue parti. E avere coscienza di sé significa definire un modello di collaborazione: ogni elemento è parte di un tutto quando collabora alla ricostruzione del tutto.
Le cellule staminali per es. usano tali proprietà nella ricostruzione dei tessuti. Le formiche usano tali proprietà nella costruzione del proprio habitat. Ma queste sono cose che vediamo, o che qualcuno ha visto per noi e ce le ha trasmesse: la memoria si trasmette… e la coscienza? Anche…
Il problema è che il nostro modo di descrivere le cose è incompleto, perché noi siamo incompleti.
Consideriamo alcune delle leggi che hanno caratterizzato la scienza moderna, realizzando nel pensiero filosofico e nei comportamenti sociali una vera e propria rivoluzione culturale. Einstein e la teoria della relatività: “Ogni problema non può essere superato allo stesso livello di pensiero che l’ha generato”.
Poi Heisenberg e il principio di indeterminazione: “Nell’ambito della realtà le cui connessioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono ad una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere all’interno delle frequenze determinate per mezzo delle connessioni è piuttosto rimesso al gioco del caso”.
Infine Goedel e i teoremi di incompletezza: Nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza.
Capiamo sempre di più ma mai abbastanza: c’è una quarta dimensione? Sì ma il tempo sfugge dallo spazio delle mie osservazioni quando devo distinguere tra passato presente e futuro.
Ma è sicuro che ce n’è una quinta, una sesta? Ce lo hanno detto, ce lo hanno mostrato, lo abbiamo immaginato… ma ci sono cose che noi umani non possiamo neanche immaginare.
Perché anche l’immaginazione si costruisce su archetipi e modelli che hanno il limite di essere prodotti da noi. E l’autosimilarità qui non basta e la collaborazione non può essere solo quella che abbiamo imparato a scuola, che crediamo di usare quando lavoriamo in un gruppo, quando realizziamo un’attività con qualcuno.
Comprendiamo che c’è qualcosa di più: vampiri, cyborg, transhuman... descriviamo i loro comportamenti usando i nostri comportamenti, anch’essi limitati, anch’essi incompleti.
Nell’Albo Gigante di Dylan Dog citato da Mario ci sono almeno due storie intriganti che affrontano questi argomenti: non solo Effetti Collaterali, ma anche L’alleanza che ci riporta all'ansia di immortalità che ci perseguita da millenni... già da millenni: probabilmente se ci guardassimo con un certo distacco e ci vedessimo come elementi di un sistema più ampio (il genere umano), avremmo già capito che l'immortalità ce l'abbiamo già.
L'alleanza è un comportamento umano destinato a fallire, perché è concentrato su un obiettivo comune da raggiungere: una volta raggiunto, "nemici come prima".
La collaborazione invece è un processo che ha come fine la collaborazione stessa: è uno strumento fondamentale per reimparare a vederci come elementi di un tutto, che ci definisce e che si ridefinisce grazie a tutti noi, nel tempo e nello spazio.
Paola De Vecchi Galbiati
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E ora che anche le nostre misere menti galleggiano spaurite nel caos siderale che ci circonda, ci accingiamo alla visione di un film ancora più recente sulle parallele dimensioni dell'essere a noi ancora inspiegabili: Another Earth (2011, Mike Cahill, locandina internazionale a destra), presentato (e premiato) allo scorso Sundance e previsto in Italia a maggio 2012 per Fox, in cui si immagina addirittura un pianeta speculare al nostro in cui ciascuno di noi ha un proprio doppio. Siccome è appena passato il 60enario della pubblicazione del primo romanzo (Il Pianeta Morto) di Stanislaw Lem, omaggiamolo ricordando la parentela col suo Solaris, oltre che col più recente (e pessimista) Melancholia di Lars von Trier.
Tutto connesso con tutto... con tutto con...........
P.S.: Posthuman ringrazia Paola per il suo contributo e auspica di riaverla presto ospite per altri interventi.