Il film di Cristopharo mette in scena una “metafora della distruzione” attraverso l’inferno della nuova droga dell’Est che “mangia il corpo” (e l’anima). Un esperimento indipendente e unico, anche se non pienamente riuscito.
Viene proiettato (per conto della coraggiosa Distribuzione Indipendente) in
una ventina di ardimentose sale e cineclub della Penisola (di cui purtroppo nessuna in Lombardia)
Red Krokodil, film girato nel 2012 dal prolifico
Domiziano Cristopharo, che da
House of Flesh Mannequins del 2009 del 2009 ad oggi ha già messo la sua firma in una buona dozzina di film, propri o ad episodi.
Questo in particolare è un progetto ancor più “indipendente” degli altri, essendo stato girato in totale autarchia (dice il regista, con un budget di soli mille euro!): una camera (digitale), un appartamento devastato, qualche scorcio di bosco e di costa intorno l’ambientazione.
Un solo attore: il convincente
Brock Madson, ex fotomodello (e, pare, ex tossico) molto impegnato sul versante della corporeità (è sempre o nudo o al massimo vestito di qualche fascia e di uno slip lacero), una sorta d’incrocio tra un Joe D’Alessandro
warholiano e un Robert Powell-Gesù
zeffirelliano (nella scena in cui si crocifigge con corona di spine, v. foto sotto a sinistra, me l’ha ricordato).
Nessun dialogo: ciò che udiamo è solo un voice over (voce fuori campo) che esprime i pensieri del protagonista (noi l’abbiamo visto in inglese con la voce di Madson ma esiste anche una versione doppiata in italiano).
I pensieri e le allucinazioni, perché
Red Krokodil è la storia-non storia di un viaggio nell’inferno della letale desomorfina (la
definizione di Wikipedia è riportata pari pari nell’intro del film), droga sintetica che sta mietendo vittime soprattutto in Russia (dove appunto appare ambientata la vicenda), come succedaneo a basso costo dell’eroina (con cui – battutaccia – dev’essere stato pagato l’attore, dato il budget dell’autoproduzione!), e su cui in rete trovate immagini con cui agghiacciarvi più che con qualsiasi orrore di fiction, giacché l’oppiaceo deve il proprio nome slang (
krokodil, appunto) al fatto che in breve tempo rende la pelle squamosa come quella di un coccodrillo. Ma il Madson deturpato che vedete nel film è niente rispetto a quel che può accadere nella realtà.
Non-storia, dicevamo, perché, a parte apprendere che ci troviamo in una città di macerie in Russia, nulla il
Cristopharo ci spiega del suo personaggio e della sua psicologia: lo troviamo già malridotto e in preda alle allucinazioni. Su chi fosse prima, perché sia sprofondato in quell’inferno, come sia finito nel desolato cottage in cui va in scena la sua tragedia, nebbia. Il regista punta a un’astrazione
arty (tipica del suo background nella video art, vistosissima nel citato
House of Flesh Mannequins), e anche il presente del suo protagonista in realtà è un non-tempo in cui si affollano ricordi d’infanzia (il pupazzetto donato dalla madre a lui bambino, guarda caso un coccodrillino di peluche, una non meglio precisata guerra), voci radiofoniche di epoche diverse (l’annuncio del disastro nucleare di Chernobyl, l’aggressione nazista all’Unione Sovietica nel ’41).
Non certo un thriller sulla nuova droga dell’Est alla
Traffic (Soderbergh) o alla
Le Belve (Stone/Winslow), non una via crucis biografica (
Christiane F.) né un’analisi sociologica della dipendenza alla
Requiem for A Dream (Aronofsky/Selby) o come l'italiano
Fame Chimica – anche se come tale verrà inevitabilmente presentato per comodità dalla stampa, vedi ad es.
QUI) – e neppure una parabola sulla droga come arma per scardinare il linguaggio e l’oppressione politica, come nel
Pasto Nudo di Cronenberg/Burroughs… cos’è dunque
Red Krokodil? Un oggetto filmico di non facile definizione, certo: forse la risposta più accettabile è una messa a nudo dell’anima attraverso l’abiezione.
È il regista stesso a definire “metafora di distruzione” il suo film sulla mostruosa droga e ad una sorta di misticismo apocalittico volgono diverse scene statiche, ieratiche nel loro squallore, pur accompagnato dalle misticheggianti musiche di
Alexander Cimini. Su tutte la sopra ricordata allucinazione cristologica del Madson. E a un simbolismo
jodorowskyano mi sembra puntino scene come quella del protagonista nudo che rotola nel deserto (mi è venuto alla mente un parallelo con
El Topo). Ma è una consapevolezza di sé attraverso la “cognizione del dolore” o una disperata fuga da sé nell’autodistruzione?
“La storia della droga Krokodil, la più fisicamente distruttiva e letale, era un'ottima metafora per narrare in realtà un marcire interiore”, finge di spiegarci il regista. Purtroppo, la mancanza di sviluppo psicologico del personaggio ci lascia il dubbio insoluto.
Una caratteristica che direi tipica del cinema “video artistico” di
Cristopharo, che mette in scena elaborate visioni di dissoluzione del corpo (nella droga qui, nella perversione là) che guardano inevitabilmente al surrealismo
lynchiano come appunto al misticismo di Jodorowsky. E che riescono efficaci sul piano immaginifico (nonostante i mezzi produttivi palesemente all’osso e un digitale indegno, per esempio sull’occhio nel triangolo di parete), come negli incubi con le presenze minacciose oltre la porta, cui bastano delle braccia brancicanti e dei palloncini bianchi per proiettarci nel delirio (un appello a parte: è possibile bandire i
coniglioni donniedarko-carrolliani dalle scene onirico surrealiste al cinema per almeno una decina d’anni?). Ma che rimangono alla fine chiuse in questo ermetismo compiaciuto che snobba troppo presuntuosamente la narrazione, senza peraltro farci scoprire nuove strade della visione (come accadeva vedendo un
Eraserhed, per dire, o il citato
El Topo etc).
{mosimage}È così che, dopo un’ora e mezzo di vagare e soffrire
aporetico, ci piove addosso improvviso il finale in cui il personaggio senza nome - come inspiegabilmente aveva iniziato - decide di smettere di drogarsi e di “ritrovare la propria umanità”, mal servito nel nobile proposito da uno
sviolinamento d’indigesta sdolcinatezza, che si chiude con una non meno misteriosa visione di fungo atomico in lontananza dalla finestra.
In conclusione, film personale e ardito (full frontal nude maschile, quasi-masturbazione, dissoluzione horror della carne in cui il registasi trova a suo agio), quanto irresoluto e imperfetto, che troverà lodi squillanti (
QUI ne leggete una) quanto stroncature (
QUI un valido esempio),
Red Krokodil va visto e meditato come un esperimento unico, senza molti termini di paragone nel cinema contemporaneo anche coi suoi difetti, a qualunque posizione poi si scelga di aderire: tra una ventina d’anni potrebbe essere ricordato come
cult autoriale ermetico, una sorta di
Chappaqua del terzo millennio.
Mario G