Hiruko per Tsukamoto è un film su commissione (della Shochiku, casa di produzione di Ozu): gli offre un budget decoroso e un set per girare, cosa che al tempo del primo
Tetsuo non aveva, oltre alla garanzia di disporre di più mezzi per il successivo
Tetsuo II (ora entrambi su RaroVideo, come si diceva) La storia non è sua, ma tratta da un manga di cui il regista si dichiara fan. Ambientazione e costumi fan sembrare la pellicola più vecchia di quanto non sia: il film è del ’90, ma potrebbe apparire coevo dei
Godzilla che Tsukamoto afferma d’aver voluto omaggiare (sicuramente una scelta stilistica precisa, da parte di un regista assai sicuro nella creazione delle proprie ambientazioni). Anche la recitazione degli attori è costantemente, fumettisticamente, sopra le righe: rubo l’ingenerosa definizione di mia moglie – “insopportabilmente giapponese” – per far capire a chi come lei detesta il cinema nipponico quel misto di gesti grotteschi e occhi sgranati che animano tutta questa storia di spiriti maligni che invadono chi s’imbatte in loro. Caccia, sofferta vittoria finale dei nostri eroi e pure lieto fine sul prato con musichette sviolinate. Ironia? Ma certo, Tsukamoto non è mica uno stupido. Però…
Ecco, siamo arrivati alla chiave del problema: il “grottesco”. Il film non lesina invenzioni figurative anche notevoli, come i ragni dalla testa umana (che a molti han fatto pensare al carpenteriano
La Cosa), oppure le teste affioranti sulla schiena del ragazzino protagonista, sorta di orrendo “uomo illustrato” alla Bradbury (per il ripasso, trovate il libro edito in italiano da Fanucci). Poi ci sono le citazioni che mandano in sollucchero il cinefilo: dal suddetto Carpenter, al Raimi de
La Casa (l’immancabile sega elettrica, le soggettive vertiginose), ma… attenzione, a questo punto passiamo da un’analisi “oggettiva” (se epistemologicamente ammissibile) ad un giudizio consapevolmente personalissimo: secondo il sottoscritto, horror e grottesco NON possono convivere (se non forse nello sguardo dello spettatore adolescente), l’ossimoro porta a cancellare inevitabilmente uno dei due estremi fra cui si bilancia la storia.
So bene che è un criterio assolutamente soggettivo, infatti schiere di fan sono disposti a crocefiggermi a testa in giù per la mia incapacità di apprezzare l’ironia nello splatter dei primi Peter Jackson o del succitato Raimi, per non dire del Landis del
Lupo mannaro americano a Londra. Tutti ormai classici del genere. Non so che farci, amici: secondo me la risata nell’attimo dell’orrore non ci sta. In un film di pura suspence ti toglie proprio quest’ultima, in un film che vorrebbe dire qualcosa annega il senso nella parodia. La risata nell’horror secondo me vale solo nel trash, nel postmoderno, in quanto parodia del “cinema serio” o comunque gioco esplicito, finalizzato non a creare intense emozioni ma a mescolare gli opposti fra loro per il puro piacere della
nouvelle cuisine.
E ciò vale tanto per il cinema americano quanto per quello orientale: la questione non è culturale, ma filosofica, oserei dire “morale”. Come si giustifica lo spargimento di sangue copioso, la violenza gli stupri gli squartamenti e tutto quanto il carosello dell’horror? Noi amiamo difenderci dai detrattori del genere, dai nemici del pulp ricordando che il cinema (la narrativa) di genere sono sovente più liberi del cosiddetto “cinema (narrativa) d’autore” di mettere in campo segni e significati che spingono a riflettere sul mondo, sulla società in cui viviamo, sulla natura umana. Insomma, che
La notte dei morti viventi ci dice sulla “diversità” cose più attuali e amare dell’ameno dialogo borghese “realistico” di
Indovina chi viene a cena, per fare un esempio. O che il geniale e scandaloso
Strange Circus di Sion Sono ci porta “dentro” l’incubo e l’annullamento d’identità della pedofilia domestica assai più dell’ipocrita commediola buonista della Comencini (
La bestia nel cuore, evitatela come un pedofilo!). O ancora, per tornare all’horror propriamente detto, che i vampiri del sublime Abel Ferrara (
The Addiction) ci fan guardare nello specchio il Male nell’uomo assai più delle elucubrazioni del pensoso Wenders di
End of Violence, che
Videodrome di Cronenberg è più spietato di
Truman’s Show sull’invadenza dei media.
Ma se l’orrore fa ridere? Oh, beninteso: non vorrei negare a nessuno il piacere di divertirsi al cinema, ma allora dove va a finire il senso filosofico del “tagliare l’occhio” sullo schermo? La tragedia greca vietava la vista della violenza (che nelle sue trame abbondava, e pure bella fantasiosa). Noi la mostriamo, ma a qual fine? Cosa traiamo dal pozzo scuro? Riflessioni sulla belva che è (anche) in noi? Sulla complicità fra carnefici e vittime? Sulla sopraffazione come fattore fondante del vivere civile? No, risate? Ma allora non hanno ragione a volercela proibire perché diseducativa? Passatemi il paradosso, ma non è più sensato ridere dei capricci di una direttrice di rivista fashion nevrotica che schiavizza le sue sottoposte?
Insomma, la
“poetica di Aristotele secondo posthuman” dice che la commedia è il genere del realismo; al fantastico (e in esso all’orrore), quando lo si voglia portare in scena, tocca portarci “altrove”, non dico senza mai far uso d’ironia, ma senza commettere il peccato mortale d’irridere la materia stessa dello spavento che ci serve come pasto (nudo). Ho detto.
Lo so, son partito in un excursus del tutto personale, che trascende lo specifico del film di Tsukamoto e nega l’evidenza (cioè che l’horror sia anche un genere di consumo, oltre che a volte una tela dietro cui ricamare riflessioni “serie”)… non vogliatemene: per sentire delle osservazioni più specifiche sulla “semplicità” (rosselliniana, bressoniana) di
Hiruko, c’è sempre l’illuminante “videocosa” di Enrico Ghezzi negli extra, oltre al libretto interno, forte di (s)punti critici di Roberto Silvestri e raccontini deliranti di Aldo Nove.
Per nostra fortuna, Shinya Tsukamoto tornerà presto sui nostri schermi domestici con un thriller-horror metropolitano – il recente
Nightmare Detective, sempre per RaroVideo – che si preannuncia succulento per gli amanti del coté più inquietante del regista cyberpunk per eccellenza.
A presto!