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Ci sono sempre due o tre cose che ci balzano per la mente quando pensiamo alla Svizzera: il cioccolato Lindt e le sue mucche pezzate di bianco e viola, le caramelle Ricola col tipetto nevrotico che strattona per l’asciugamano il burbero boscaiolo finlandese, e infine l’epigrafica battuta di Orson Welles quando, ne Il terzo uomo (1949), dichiara senza mezzi termini di preferire i più sanguinari Borgia agli orologiai elvetici. E questa è storia.
Quel che però non si dice è che negli ultimi anni il panorama cinematografico svizzero, forse per ragioni di competitività, forse per naturali esigenze artistiche ed estetiche (chi ha mai visto un film svizzero alzi la mano) ha deciso di oliare i muscoli e azzardare il braccio di ferro con produttori non sempre interessati a pellicole di genere. Un primo tentativo fu presentato a Locarno nel 2009: si trattava de La valle delle ombre, una coproduzione tra i due stati confinanti (sì, anche noi italiani abbiamo avuto una quota di rappresentanza con Eraldo Baldini come soggettista e, udite udite, Fausto Brizzi di Notte prima degli esami tra gli sceneggiatori). Ma il risultato non fu all’altezza delle aspettative perché il regista, tale e impronunciabile Mhàly Gyoerik, alla fin della fiera imbastì un filmetto caciarone a base di fantomatiche leggende ticinesi. È vero, quel film non l’ho visto, né saprei come reperirlo, ma da fonti abbastanza sicure mi sono giunti curiosi aneddoti che mi spingono a risparmiare tempo e denaro per dedicarmi ad altre e ancor più sconosciute amenità cinematografiche. Uno su tutti? Beh, la protagonista che, chiusa come da copione in una grande villa gotica con tanto di notte buia e tempestosa in sottofondo, si cambia d’abito tre volte in poche ore nonostante l’unica compagnia sia quella del proprio cane. Sarà stata la padrona ad essere particolarmente vanesia o il cane ad essere particolarmente esigente? Ai posteri l’ardua sentenza.
Dobbiamo attendere il 2011 perché un altro regista svizzero-tedesco dimostri di avere fegato e metta in cantiere un film, Sennentuntschi appunto, che già da solo è in grado di riscrivere e ampliare la toponomastica horror degli ultimi anni, soprattutto in un contesto internazionale dove le scuole principali, quella francese e spagnola, hanno ormai dettato la linea generale. Non è stato facile, perché il regisseur di questo viaggio allucinato tra streghe, demoni e creature delle tenebre, lo zurighese Michael Steiner, classe 1969, ha dovuto fare i conti, letteralmente, con finanziatori e produttori che, tra ripicche, rimproveri e indiscrezioni, hanno sin da subito tentato di mettergli i bastoni tra le ruote.
Ma Herr Steiner è un tizio tosto, un autodidatta con due palle quadre: a soli ventisette anni presenta al Festival di Locarno Die Nacht der Glauker (1997), primo lungometraggio girato senza la benché minima sovvenzione, quindi raggiunge il successo con Il mio nome è Eugen (2005) e Grounding (2006), quest’ultimo dedicato al fallimento della nota compagnia aerea Swissair.
E parlando di fallimenti, Steiner rischia grosso, perché è proprio la sua compagnia di produzione a stanziare capitali nel 2008 per Sennentuntschi, ed è proprio la sua compagnia di produzione a rischiare la bancarotta. Il progetto è troppo costoso, i debiti si accumulano, e ben presto il regista non può nemmeno più contare sull’amico e collega Nicolas Bideau, capo della sezione Cinema dell’Ufficio Federale della Cultura, poiché accusato di destinare fondi pubblici a film “commerciali”, sottraendo così soldi per le proiezioni d’essai. Sembra allora che su Sennentuntschi, per parafrasare il suo demiurgo, gravi una plumbea maledizione, fino a quando non giungono gli austriaci a dissipare l’atroce dubbio. Ecco che mettono sul piatto cinque milioni e mezzo di franchi, e il cantiere riapre i battenti per concludere la travagliata opera.
Per fortuna noi cinefili, amanti di turpitudini e brutture, cantori di orrori e altre amene svergognatezze, non abbiamo atteso invano. Certo, un titolo così complicato potevano risparmiarcelo, anche se la Sennentuntschi cui è dedicata l’opera, questa mostruosa e deliziosa creatura del Male, trova ragione di essere proprio in quel folclore alpino che ha fornito humus e materia prima per la sceneggiatura. Narrano infatti le leggende che questa discinta ragazza, altrimenti conosciuta come Sennenpuppe, letteralmente “bambola dei pastori”, compaia nelle più buie e solitarie notti montane per fare conoscenza, come dire, carnale, dei suoi evocatori. Per la precisione succede questo: i pastori, stufi di contare le pecore per prendere sonno, costruiscono un’artigianale bambola di pezza utilizzando una scopa come scheletro, e pronunciate alcune magiche parole (nel film “Spirito Santo dell’Assenzio, abracadabra!”) trasformano l’irsuta saggina in una fluente capigliatura e la stoffa in tenera, fresca epidermide. Alla luce del giorno si consuma però il dramma, perché gli sprovveduti abitanti della catena alpina, dopo essersi sollazzati tutta la notte, vengono scuoiati ben bene dalla loro stessa Galatea, e le loro pelli usate come vestimento di grandi, umanoidi pupazzi di paglia.
Sennentuntischi è dunque solo la più o meno fedele trasposizione di una favoletta vecchia come il cuculo? Non esattamente.
Tutto comincia negli anni Settanta, in un paesino sperduto tra i cucuzzoli mitteleuropei, e guarda caso con il suicidio di un prete (ricorda qualcosa? Sì, è una citazione voluta, visto che Steiner è cresciuto con i film di Fulci e Argento). Il sacerdote si è attaccato una corda al collo e s’è lasciato penzolare dal campanile per ragioni non meglio precisate. Quindi viene seppellito in fretta e furia al di fuori delle mura cimiteriali. Proprio in quel momento, dalle misteriose e avvolgenti profondità dei boschi, compare una ragazza incappucciata (Roxane Mesquida, quella di Rubber, Kaboom, Sheitan, Sex is Comedy e altre note pellicole soprattutto francesi): non parla, non ha vestiti addosso a parte l’informe coperta che l’avvolge, si esprime a gesti come una ragazza selvaggia, cresciuta nel mezzo della natura e allevata da qualche animale selvatico. La piccola comunità che si raccoglie attorno all’apparizione prodigiosa, culturalmente lontana anni luce dalla civiltà e dal progresso, non può che associare la giovane (e bella) sconosciuta alla morte del prete, bollandola dapprima come presenza funesta da cui guardarsi, quindi come strega.
Per fortuna arriva Sebastian Reusch (Nicholas Ofczarek), il poliziotto buono, che comincia le dovute procedure per l’identificazione. Non sarà facile, però, vuoi perché all’epoca non esistevano archivi digitali, tecnologie informatiche e tutte quelle chicche della modernità che siamo usi vedere in televisione, vuoi perché i rustici abitanti del villaggio perdono le staffe con troppa facilità. Infatti il vecchio sacerdote (quello sopravvissuto, s’intende) se ne va in giro ad inzigare i malcapitati con discorsi religiosi da far impallidire un islamico ortodosso, mentre la ragazza senza nome, quasi a gettare benzina sul fuoco, prima sputa e ringhia come una bestiaccia dinnanzi ai simboli della religione cristiana, quindi, non si capisce bene come a causa di un agghiacciante ed evocativo fuoricampo, spinge una donna a partorire prematuramente un neonato morto.
A quel punto, l’aborrita ospite è costretta a fuggire onde evitare il linciaggio, e si nasconde in una baita dove tre pastori fuori di testa ammazzano il tempo torturandosi psicologicamente l’uno con l’altro e mettendo alla prova la rispettiva virilità. Il capo sembra però essere il perfido, barbuto Erwin (Andrea Zogg, nella foto a destra, volto geniale che purtroppo non sembra aver mai trovato degna consacrazione al di fuori dei confini nazionali). Vive completamente isolato dal resto del mondo insieme a un ragazzino ritardato (poi scopriremo esserne il padre), fino a quando il giovane Martin (Carlos Leal), per dimenticare una delusione d’amore, non si stabilisce da loro come aiutante tuttofare. Una notte, però, ubriachi d’assenzio, un po’ per gioco e un po’ per disperazione, i tre si dedicano a un improvvisato e grottesco rito esoterico, evocando la famigerata Sennentuntschi. Ecco che al mattino la bella forestiera, braccata dai sanguinari tagliatori di teste del villaggio, giunge alla baita isolata, chiedendo protezione. Purtroppo il terzetto di rabberciati negromanti travisa completamente le esigenze della giovane, pensando piuttosto che la misteriosa apparizione, reincarnazione degli antichi spiriti delle foreste e delle montagne, sia giunta per soddisfare le loro voglie. La fuggitiva viene così coinvolta in un turbine di sesso promiscuo, ove il confine tra abuso e consenso si fa talmente labile che tanto lo spettatore quanto gli euforici personaggi si interrogano costantemente sulla moralità delle proprie azioni. Braccata dagli indemoniati abitanti del paese, sequestrata e utilizzata come feticcio sessuale dai tre montanari, alla ragazza non resta altro da fare che abbracciare la propria natura ferale, trasformandosi in una creatura disposta a tutto pur di difendere il proprio diritto alla libertà.
Aggiungere altro sarebbe di cattivo gusto, perché si rischierebbe di svelare quanto soltanto il film è in grado di raccontare. Diciamo solo che Sennentuntschi abbandona presto ogni linearità narrativa per frangersi in una congerie di frammenti complementari. Il film di Steiner è un capolavoro di scrittura (ben quattordici le versioni nell’arco di due anni) sia per l’impianto narrativo che ne sta alla base, sia per l’invidiabile capacità di distorcere ogni sfumatura, di adulterare ogni indizio, aprendo lo sviluppo delle vicende a una molteplicità interpretativa che presto si mostra come contrario speculare di quanto pensato fino a quel momento.
A farne le spese è lo sguardo dello spettatore che, “complice” delle vicende narrate, non può fare a meno che parteggiare in un primo momento per il retto tutore dell’ordine Reusch, unico barlume di integrità morale in un paese impregnato di ottusità e ignoranza. Poi, però, scopriamo che forse i deliri del prete non erano così fuori luogo, e che le più subdole fobie del villaggio tutto sommato trovano parziale accoglimento in una serie di comportamenti che, inafferrabili quanto si vuole, portano comunque la fuggiasca al compimento di funesti delitti. Forse la Sennentuntschi non è quell’innocente creatura che vuole sembrare, forse in lei si nascondono davvero i germi di una follia primordiale e profonda come le foreste da cui proviene. O forse la spiegazione è molto più semplice, e la giovane, costretta a crescere in un mondo lontano dal mondo, dove il più debole è carne da macello proprio in virtù della diversità che lo contraddistingue, altro non applica che la vecchia legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente. Di ragioni ne avrebbe tante, d’altronde, il razzismo becero dei paesani, gli abusi sessuali ripetutamente perpetrati dai tre pastori e via discorrendo. Ma allora chi (o cos’è) questa creatura? Angelo vendicatore o demone protervo e spietato? Non lo sapremo mai.
La grande novità di Sennentuntschi è infatti la capacità di fare un film completamente incentrato sulla seducente ambiguità del male. Un po’ come in Antichrist di von Trier, sulfurea pellicola che con l’opera di Steiner condivide la medesima lucidità retorica e teorica, il Male coincide con la Natura, “tempio di Satana”, e trova perfetto compimento nel corpo della donna. È proprio sulle vette alpine lontane da qualunque forma di civiltà, nei boschi intricati, tra le rupi scoscese e i crepacci antichi che si svolge il primo e ultimo dramma dell’umanità: la lotta serrata per la sopravvivenza, il titanico scontro tra i principi virili, brutali, eccessivi ma nondimeno necessari, e quelli femminili, ancor più subdoli ma allo stesso tempo essenziali per la conservazione della specie. L’uomo è costretto a sottomettere la donna affinché ella non lo annienti (quando la Sennentuntschi era confinata al bosco, il paese viveva in pace, nel momento in cui abbandona la propria prigione, il caos funesta la comunità con una serie di violenze e rappresaglie); e la donna, dal canto suo, è costretta a distruggere l’uomo, a renderlo feticcio (di paglia, a trasformarlo in bambola, a effeminarlo) proprio come altrimenti egli farebbe nei suoi confronti. Non ci sono soluzioni di compromesso, quando la legge viene a mancare, o si mangia o si è mangiati, o si uccide o si soccombe a chi ha forza e risolutezza dalla propria parte.
Sennentuntschi farà inorridire le femministe e storcere il naso anche ai più donchisciotteschi sostenitori della parità dei sessi in una società democratica ed evoluta. Pazienza. La verità è che il film di Steiner ci ricorda che l’abisso è dentro di noi, e che ogni azione malvagia cui assistiamo è sempre e puntualmente lo specchio di quella stessa dissolutezza che portiamo nel cuore. Alla fine di questa favola gotica non restano né vincitori né vinti, soltanto il senso di impotenza e di vergogna per una natura (troppo) umana per essere perdonata.
Marco Marchetti