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Il cinema di Lars von Trier è innanzitutto il cinema della censura. È (almeno) la quarta volta che la forbice dei moderni braghettoni italioti colpisce il Maestro danese, ora però secondo schemi preventivi: cioè non si taglia più, ma si boicotta. Difficile dire quali ne siano le ragioni, anche perché in questo film non si nota niente (forse) di così eclatante da giustificarne una pressoché mancata distribuzione nelle sale, fatto sta che von Trier sempre più spesso pare condannato all’invisibilità.
La prima volta è successo con Idioti, 1998, e lì a farne le spese fu una decina di minuti di metraggio (il pene semi-eretto di Jens Albinus, nonché la famigerata scena dell’orgia, talmente scandalosa che il Corriere della Sera, quando ne editò la versione home-video, appuntò sul cartoncino della videocassetta un V.M. 14, un po’ come è successo alla Pianista di Haneke). Inutile dire che quel film è ormai stabilmente inscritto nel registro delle pellicole scomparse, se non per un veloce avvistamento su YouTube, versione originale con sottotitoli in spagnolo, subito mutilata dalle attente eminenze grigie del sito internet in questione. Poi è stata la volta di Manderlay (2005), altro sulfureo capolavoro bollato dalla critica come opera degenerata di chiara matrice neonazista, quindi di Antichrist (2009) che, vuoi perché mostrava un pisello a ore dodici, vuoi perché sputtanava le donne (sì, era la donna l’anticristo del titolo, non il bambino coi “piedi caprini” come ha fatto notare qualcuno) alla fine se l’è vista brutta e sul suolo patrio è stato confinato ai circuiti d’essai. Adesso è toccato a Melancholia.
L’insofferenza serpeggia tra gli invitati, quella patina perfetta che sembra inglobare i presenti in un’atmosfera magica e lontana dal mondo (una colossale villa d’epoca, abitazione e studio del genero della Dunst, Kiefer Sutherland, noto astronomo) comincia pian piano a frammentarsi. Ma è la sposa a dar segni di squilibrio: si assenta senza motivo, si ritira nei suoi appartamenti privati dove è colta da inspiegabili crisi di pianto, arriva addirittura al punto di insultare il proprio capo e licenziarsi. E infine, a coronamento di una giornata maledetta, anziché trascorrere la notte di nozze col marito, va in giardino a spassarsela con il giovane e inesperto collega di lavoro (pure lui poi licenziato).
Quindi il film cambia. Calato il sipario sul talamo nuziale, si apre la seconda parte, complementare e speculare rispetto alla prima. Qui seguiamo le vicende di Claire, la sorella della Dunst, che cerca disperatamente di consolare la consanguinea per il disastro combinato la sera precedente. Quello che Claire ignora, però, ma che Justine da sempre presentiva, è che il mondo sta per finire a causa dell’immediata collisione della Terra col pianeta Melancholia.
Tutto questo per dire cosa? Che Melancholia non è cinema, come non lo è Antichrist: fino a quando critici e spettatori non si renderanno conto di tale, semplice assunto, non se lo stamperanno in testa a caratteri cubitali, continueranno a cadere nell’errore di etichettare qualunque film del regista scandinavo come incomprensibile, velleitario o finanche immorale, i primi perché troppo ottusi per assaporarne l’essenza, i secondi perché ormai ideologicamente assuefatti alle pellicole americane per intendere qualcosa di diverso dalle sparatorie e dai fuochi d’artificio No, Melancholia è una sinfonia d’emozioni che parla al cuore piuttosto che al cervello, e da lì giunge all’anima, lasciando qualcosa di profondo e radicale. O lo senti o non lo senti, o ti apri alla bellezza e, appunto, alla malinconia che ogni lavoro di Lars von Trier sottende, oppure ti dedichi ad altro. È semplice. Melancholia è il Grande Nord, è lo Spirito della Scandinavia, è sintomo e segno di una cultura che da secoli, ancor prima della rivoluzione luterana, è irrimediabilmente colpita dalla luttuosa tragicità esistenziale del fato, o di quella che proprio i protestanti chiamano “predestinazione”.
Melancholia è fondamentalmente la fine del mondo nello sguardo di due donne, caratterialmente, fisicamente e culturalmente molto diverse, ma legate da vincoli genetici, affettivi, famigliari, nonché da quella comunanza fisiologica, corporale, che sempre in von Trier rende il genere femminile vittima e carnefice del cinema e dell’umanità intera. Le femministe hanno trovato pane per i loro denti, chi criticando il regista di misoginia militante, quasi ancor più del misogino per antonomasia, Buñuel, chi accusandolo di oscurantismo cerebrale e di malsane pulsioni inconsce (ve lo ricordate il macabro siparietto riservatogli da mezzo mondo all’uscita di Antichrist? In ballo c’era di tutto, le donne, la psicanalisi, ogni topos biografico del regista, vero o presunto, andava bene per fare della bassa macelleria d’opinione).
Eppure von Trier ama le donne. In un modo tutto suo, contorto quanto si vuole, magari encefalico, masturbatorio, ma è sempre uno sguardo d’amore che traspare dalle sue pellicole. Non è forse proprio la donna che si sacrifica per la salvezza dell’uomo in Le onde del destino (1996)? Non è forse la giovane Selma di Dancer in The Dark (2000) a scegliere consapevolmente la strada del martirio onde assicurarsi la sopravvivenza del figlio? E che dire della brillante, colta e ben educata Grace, la cui unica colpa, in fin dei conti, è quell’eccesso di ottimismo che, come spesso accade (a tutti, maschi e femmine, senza troppe distinzioni sessuali), finisce per procurare più grattacapi delle sue nobili intenzioni? Persino lei, l’Eva di Antichrist, così vituperata, colpita e sforbiciata da critica e spettatori, muore per la redenzione di suo marito, Adamo, primo uomo destinato, nell’incomprensibile disegno di Dio Onnipotente, a perire nel peccato e risorgere nella comprensione del tutto. Sono sempre due donne le “elette” di Melancholia, due mondi opposti come i pianeti, che però, nella sintesi finale, quando la distruzione è ormai alle porte, si incontrano per qualche attimo, fondendosi tra loro in una comunanza atavica e profonda, che parte dalle cellule, dagli atomi, dagli elettroni per esplodere e trasfondersi nella polvere di stelle, tra le galassie e i corpi celesti.
Due sguardi speculari e complementari, perciò, il primo, quello di Justine, la “giusta”, cioè colei che vede e come Cassandra si immolerà sulle scale del tempio (il matrimonio, la famiglia, rappresentata dalla grande, sacrale villa); e Claire, la “luminosa”, che pur restando avvoltolata nelle tenebre per tutta la prima parte del film, nella seconda si risveglia incredula e informicolita, comprendendo quanto il marito (uomo, e come tutti gli uomini della pellicola predestinati a non intendere) si ostinava a rinnegare.
“La vita è solo sulla Terra”, dice Justine quando ormai l’energia di Melancholia è dentro di lei, ne guida i pensieri, serpeggia per le sue dita fatate, deposita nella sua anima (e nel suo sguardo) una parte di quella saggezza cosmica e millenaria che soltanto un corpo celeste custodisce nelle proprie viscere. Ormai il contatto è stabilito, l’essenza di Melancholia, la sua vibrante potenza, le sue intersezioni elettromagnetiche, si confondono nella pelle, piovono nello sguardo, meravigliato e al tempo stesso consapevole, di creature a un passo dalla mistica fusione con il tutto.
Melancholia è soltanto una triste elegia, dunque, un epitaffio a degna conclusione dell’umanità? Forse, ma solo perché guardando l’albero ci sfugge l’intera foresta. Melancholia è morte, desolazione, annientamento, ma anche rinascita, ritorno anassimandrino all’Uno, panica annessione a quanto, prima dei tempi, in un’epoca remota e dimenticata, non contemplava scissione, ma solo un’eterna, celestiale compiutezza. Siamo figli delle stelle, e alle stelle torneremo.
Marco Marchetti