Ho visto in sala The Mist, il film tratto da Frank Darabont dall'omonima novella di Stephen King (la recuperate sull'antologia Scheletri di metà anni '80), nell'ideale condizione di stare leggendo l'originale letteario ma senza esser ancora giunto al finale, il punto in cui il regista si stacca con decisione dalla storia di King, regalando alla vicenda un finale inedito, fra i più 'neri' e angoscianti della storia del cinema, e non solo horror.
Di questo film (terza riduzione kinghiana per il regista magiaro-americano, dopo i convincenti Le Ali della Libertà e Il Miglio Verde), senza essere un esegeta dello scrittore del Maine né della sua ormai ricca filmografia derivata, posso dire quindi anch'io la mia, dopo aver letto le recensioni molto positive dedicategli dal mensile Nocturno e dal sito Splattercontainer, quelle negative della stampa 'seria', come d'uso approssimativa quando non inesatta tout court.
Se leggete la recensione di Nepoti su Repubblica, ad esempio, noterete infatti che NON è affatto vero che King "si guardava bene dal descrivere" i mostri emersi dalla misteriosa nebbia che imprigiona il variegato campionario di umanità nell'asfittico supermercato: ripassate il racconto, i mostri son descritti eccome, con colori, ali membranose, vischiosità e schifosità varie!
Lo faccio notare perché questo, a mio modesto parere, è proprio il principale limite della trama, un difetto che è insito nel racconto prima ancora che nella regia, che in questo lo segue scrupolosamente: come insegna Lovecraft, la paura dell'ignoto è la peggiore; come dimostrò Ridley Scott nel suo Alien, non vedere il mostro genera molta più suspence di un moscone di mezzo metro, che nello spettatore un po' cinico potrebbe generare un effetto di ridicolo involontario, alla "guarda, i dinosauri di Jurassic Park!" (un commento che ho registrato realmente).
Invece, nel racconto di King - e nel film di Darabont - di mostri se ne vede eccome: non si dà spiegazione precisa dell'origine (presumibilmente scientifico-militare) della nebbia del titolo, ma i mostri appaiono, fin troppo, e nel film il sangue abbonda anche più che sulla pagina. La vicenda ha un buon dinamismo fra azione e momenti dialogati, da cui deve emergere invece il dato più interessante filosoficamente: la follia umana, il peggior mostro che ci attanaglia appena fuori dai confini del nostro consolante quotidiano. La sceneggiatura di Darabont sforbicia elegantemente il lunghissimo prologo (temporale e danni, quasi 50 pagine!), elimina la scena di sesso al supermercato fra il protagonista e un'altra "prigioniera" (non essenziale), e si destreggia discretamente nei monologhi deliranti della santona menagrama, destinata a rappresentare il fanatismo umano.
In queste sequenze, viene in mente la covata dei fanta-horror recenti 'in soggettiva': Cloverfield e REC per intenderci, non tanto per l'impiego di camera a mano (che qui non abbonda), quanto per la speleologia emozionale di scrutare le reazioni del "gruppo umano" di fronte all'incomprensibile, all'inaccettabile.
In fondo però, il plot si avvicina, concettualmente, alla 'fine del mondo' immaginata da E Venne il Giorno (l'incubo partorito da una natura incomprensibile ed estranea): anche l'impressione generale di assistere a un buon vecchio fanta-horror anni '50 è quella, ma con molto più coraggio in corpo del melenso Shyamalan.
Oddìo, anche Darabont non è Kubrick visivamente e i suoi attori non sono Nicholson e la Spacek: il film alla fine si può definire un prodotto di genere medio-buono dalla funzionale interpretazione televisiva o poco più; ma nell'insieme la sua Mist può guardare testa a testa la Fog di Carpenter (secondo me anch'esso non il miglior assedio del maestro newyorkese) senza risultarne... annebbiata! E qua e là si salta anche sulla sedia (e tenete presente che io conoscevo già la trama quasi interamente).
Ma dove il regista fa un salto di qualità che, non a caso, strappa l'applauso anche all'autore, è nel finale: purtroppo non anticipabile, per il vostro bene e per evitare gli anatemi del King lui meme, che dev'essersi reso conto d'aver lasciato la sua trama pratiamente sospesa nella nebbia di un non-ending. Mentre Darabont ci va giù duro, estremizzando il pessimismo cosmico dello scrittore con una chiusa che veramente la dice lunga sul mood di questo inquieto periodo storico, anche nell'America della guerra in Iraq, dei vari terrorismi etc. Pensate in quest'ottica il campo lunghissimo conclusivo sui militari in marcia nella campagna, i loro lanciafiamme sulla vegetazione e.... acc, come faccio ad andare avanti?!
Credo converrete che è un caso ben raro che una produzione major USA abbia accettato un finale così spietato (reso ancor più straziante dalla liturgica musica The Host of Seraphim dei Dead Can Dance, che accompagna la sequenza verso vette di struggimento altissime).
Mi rimarrà sempre oscura, insieme alla nebbia kinghiana, la motivazione per cui questo finale risulti complessivamente odioso alla maggior parte degli spettatori che l'hanno commentato negativamente su Kataweb ma... tant'è: evidentemente, il lieto fine è ancora e comunque nel dna di molti, come la musica tonale...
Buona visione, vi segnaliamo frattanto dai trailer le imminenti uscite del truce Frontière(s) francese e dell'apprezzatissimo El Orfanado (The Orphanage) spagnolo, mentre slitta al 28 novembre l'uscita in sala del film tratto dal videogame Max Payne. Se ne parlerà!
Mario G
P.S.: Ascoltate anche, venerdì 17 (senza timore, su!) alle 14,30, la presentazione audio su CiaoRadio con Debora Montanari nel suo Cinema In Radio.