1.3 #m@r14nn3#:#3r1c# PART ONE
Una maschera, il suo volto è una maschera di cera, che non lascia trapelare nulla. Nessuna emozione. Nulla. Lo osservo a denti stretti senza nascondere la delusione. Mi si stringe la gola. Perché non è riconoscente? Perché non si getta ai miei piedi? Perché non mi guarda come Galad? Io gli ho salvato la vita. Almeno questo deve riconoscermelo. Mi giro e gli volto le spalle e torno a guardare il neo. Non avrà mai più la mia attenzione.
Ma lui, rimane lì, non se ne va mica, anzi mi osserva con attenzione, quasi volesse capire tutto di me, quello che mi piace e quello che detesto, che numero di scarpe porto e che rimmel uso. Lo guardo attraverso lo specchio e i nostri occhi si incrociano. Deve aver percepito la mia irritazione, perché spunta un sorriso ipocrita sul suo volto slavato e la sua voce è suadente come un ruscello a primavera.
“Immagino di doverti ringraziare. Mi dispiace di averti disturbato in una occupazione… così delicata”
Mi prende anche in giro adesso! Ecco si merita davvero un bel discorso sul neo, si merita che entri qualcuno e lo sorprenda e lo cacci via dal locale.
“Stavo guardando questo neo qui sotto. Non l’avevo visto prima. Ma forse non è un neo, forse è un segno, un graffietto o peggio una macchia. A te cosa sembra?”
Si avvicina ed esamina con fare professionale. Deve essere abituato alla nudità. Certo non è come Galad. Poverino! Se ci fosse stato lui al suo posto avrebbe cominciato a sudare, gli sarebbero venute le guance rosse e la voce tremante. Non riesco a trattenere una risata. Lui si scosta come un gatto indispettito. Che pensi pure che io rida di lui!
“Sì, è un neo a forma di stella, è molto carino.”
È questo il suo asettico commento. Tiro su le spalline. Lo spettacolo è finito. Il neo è ormai archiviato. Pazienza, forse non lo cacceranno dal locale. Forse non è quello che vuole. Visto che c’è, che serva almeno a qualcosa!
“Aiutami ad allacciare la lampo.”
Si avvicina e mi guarda la schiena e anche il fondo schiena, le sue mani sono delicate ma sicure. Ne deve aver allacciati di vestiti in vita sua! Adesso che è così vicino non ho dubbi. Puzza di fata bianca e Luna Rossa, un cocktail micidiale.
Dei passi si avvicinano alla porta. Senza darmi il tempo di pensare mi afferra per il polso e mi trascina nel bagno. Silenzio. Ancora una volta dobbiamo restare immobili, in silenzio. Sale sul water e si accuccia, mi fa cenno di fare qualche rumore, di far finta di piangere e lamentarmi.
Osservo le scarpe rosso scarlatto della ragazza appena entrata. Mi appoggio a lui. È buffo starsene nascosti così. Mi fa pensare a quando ero piccola e giocavamo a nascondino con gli altri bambini e a volte ci si metteva in due sotto lo stesso armadio e allora ci veniva da ridere. E anche adesso mi viene da ridere proprio mentre dovrei fingere di piangere. Per fortuna la ragazza apre l’acqua, la sento che si sciacqua le mani, poi chiude il rubinetto e si incipria. Poi il portacipria si chiude. E arriva l’odore. Si è data una bella spruzzata di profumo. Un profumo che detesto, un misto di rosa e verbena. Un profumo kitsch. Come il suo vestito. Non lo vedo ma posso immaginarlo. Pizzi rossi e nastrino al collo. Monocromatica. Mi viene il voltastomaco solo a pensarci. I guaiti da sbronza mi riescono meglio adesso.
La porta cigola. È la stessa voce di prima. L’uomo dalle mani ingioiellate è tornato! Non resisto e guardo dallo spioncino, mentre l’altro cerca di fermarmi ma non ci riesce.
“Allora, non è lì il nostro amico?”
“No, tesoro non c’è nessuno qui, solo una pollastrella mezza fatta. Deve essersene andato via da un pezzo. Peccato, davvero.”
Lo sparo mi trapana la testa. Uno schizzo di sangue zampilla sul vestito della ragazza che rimane impietrita, cadaverica. Anche se il cadavere non è lei. Lui mi ha messo la mano davanti alla bocca per non farmi gridare. Mi stringe forte. Sento il suo corpo contro il mio. La sua testa vicino al mio collo. Mi respira addosso. Poi mi scansa la testa con delicatezza quel tanto che basta per guardare. Vuole vedere anche lui gli schizzi sullo specchio. E sul volto da pagliaccio triste della donna i segni inequivocabili della morte del suo nemico.
Arriva il servizio d’ordine. La ragazza viene accompagnata fuori. Poi portano via il cadavere. Una ragazza asiatica viene a pulire il sangue. I suoi occhi scuri non tradiscono il minimo stupore mentre pulisce lo specchio, mentre le sue dita coperte da sottili guanti bianchi fanno scivolare il sangue nello scolo del lavandino.
Io e lo sconosciuto abbiamo capito che ci vorrà tempo, che non possiamo uscire fino a che tutto non sarà finito. Ci dividiamo il water e lo spioncino. Muti, silenziosi. La ragazza delle pulizie sa che ci siamo. Pensa che stavamo lì per fare altro. Anche se è vietato. Ma non dice niente. Non ha voglia di tradirci. Tanto meno dopo aver pulito le budella di un dealer che non conosceva nemmeno.
Finalmente ha finito ed esce, e anche noi usciamo da lì.
“Deve essere stato Martin” dice lui spiando attraverso lo spiraglio della porta per assicurarsi che nel corridoio non ci sia nessuno “Ha difeso il suo territorio. Ognuno ha il suo, non si può violare. Non lo sapevi?”. Non rispondo. Non ho voglia di parlare.
Sgusciamo fuori, il locale è mezzo vuoto, ma la musica suona ancora, più bassa. Nessuno ha chiamato la polizia. I panni sporchi si lavano in famiglia. Questa è una cosa che tutti i frequentatori di night sanno. Ci sono agenti però, agenti in borghese, infiltrati. Sono in tanti. Passiamo di lato al bancone. Un uomo con una collana d’oro e una bottiglia di birra in mano ci guarda passare. Ha l’aria triste. Fissa l’uomo davanti a me per qualche istante.
Ho fatto bene a salvarlo? Avrei dovuto lasciare che lo prendessero e gli sparassero? Adesso ci sarebbe lui lì sotto quel lenzuolo nero al centro della pista.
E mentre penso a questo, lui mi afferra la mano e mi trascina fuori.
“Ti devo un drink almeno” sorride amaro sotto le luci dei lampioni al neon “andiamo in un posto più tranquillo”.
Ed è così che finiamo in un piccolo bar tutto nero, The Reflex, sediamo sui divanetti in giunco, uno di fronte all’altra, e ordiniamo un Punch Maison. I tenutari sono due omosessuali cinquantenni. Uno grasso e barbuto che si occupa dei conti, l’altro biondo, femmineo, elegante.
È lui che ci serve da bere e mette del vecchio jazz del 20 secolo. Mi piace questa musica morbida. Ci sono pochi avventori. È il posto ideale per un preludio alle lenzuola o per le confessioni che sono state trattenute tutta una vita.
Lo guardo meglio adesso. Le luci soffuse gli donano. È di bell’aspetto infondo. Se solo avesse l’aria più sana, se si curasse di più. Se solo non fosse un uomo dipendente dalla bianca frontiera. Allora forse potrei anche considerare l’idea di fare sesso con lui. Beve una sorsata, mi guarda e sorride. La luce crea riflessi ora bluastri ora violacei sulla sua camicia.
Cominciamo a parlare e finisco per raccontargli dettagli della mia vita che non racconterei mai nessuno. È solo uno sconosciuto infondo. Non so neppure il suo nome. È più facile così.
Ed è così che un Punch dopo l’altro gli parlo di Galad e finiamo a discutere sui rimescolati. E lui si scalda. Anche se le sue mani agili si muovono più lente, anche se la sua voce comincia a strascicarsi. Sarà il mix di alcool e fata bianca, ma i suoi occhi cominciano a brillare di un ardore non convenzionale.
Le sue idee sono devianti, ultra permissive. Quasi anarchiche. Comincio a sospettare che nasconda qualcosa. Che sappia sui rimescolati molto più di quel che dice.
Ma di una cosa sono convinta. Non può, non può essere anche lui uno di loro. Se lo fosse, mi guarderebbe come mi guardava Galad, se lo fosse mi prenderebbe tra le sue braccia e non vorrebbe lasciarmi più. Perché ho paura che siano proprio questo i rimescolati. Due braccia che ti stringono e non vogliono lasciarti più.
Vado alle toilette. E lì davanti allo specchio esito. Potrei andarmene e non incontrarlo mai più. Dimenticare quello che mi ha detto. Dimenticare quello che ho visto. Oppure potrei tornare al tavolo e andare fino in fondo alla questione.
Mi tampono il viso di cipria. E mi mordicchio le labbra fino a che sono più rosse del sangue. Esco. Mi avvicino al bancone. L’uomo biondo mi sorride, l’uomo barbuto salta su pronto a prepararmi il conto. Un semplice gesto della mano ed è di nuovo seduto.
Prendo altri due drink e torno a sedermi davanti a lui. E gli racconto la verità che nascondo anche a me stessa. Non so perché lo faccio. Non ce ne sarebbe nessuna ragione. E lui mi stringe la mano e con aria solenne mi fa la domanda che cambierà la mia vita.
E io lo ascolto. E mi fido di lui. Mi fido di lui perché ho tenuto la sua vita tra le mie dita. Mi fido di lui perché lui si è fidato di me.
Ma lui, rimane lì, non se ne va mica, anzi mi osserva con attenzione, quasi volesse capire tutto di me, quello che mi piace e quello che detesto, che numero di scarpe porto e che rimmel uso. Lo guardo attraverso lo specchio e i nostri occhi si incrociano. Deve aver percepito la mia irritazione, perché spunta un sorriso ipocrita sul suo volto slavato e la sua voce è suadente come un ruscello a primavera.
“Immagino di doverti ringraziare. Mi dispiace di averti disturbato in una occupazione… così delicata”
Mi prende anche in giro adesso! Ecco si merita davvero un bel discorso sul neo, si merita che entri qualcuno e lo sorprenda e lo cacci via dal locale.
“Stavo guardando questo neo qui sotto. Non l’avevo visto prima. Ma forse non è un neo, forse è un segno, un graffietto o peggio una macchia. A te cosa sembra?”
Si avvicina ed esamina con fare professionale. Deve essere abituato alla nudità. Certo non è come Galad. Poverino! Se ci fosse stato lui al suo posto avrebbe cominciato a sudare, gli sarebbero venute le guance rosse e la voce tremante. Non riesco a trattenere una risata. Lui si scosta come un gatto indispettito. Che pensi pure che io rida di lui!
“Sì, è un neo a forma di stella, è molto carino.”
È questo il suo asettico commento. Tiro su le spalline. Lo spettacolo è finito. Il neo è ormai archiviato. Pazienza, forse non lo cacceranno dal locale. Forse non è quello che vuole. Visto che c’è, che serva almeno a qualcosa!
“Aiutami ad allacciare la lampo.”
Si avvicina e mi guarda la schiena e anche il fondo schiena, le sue mani sono delicate ma sicure. Ne deve aver allacciati di vestiti in vita sua! Adesso che è così vicino non ho dubbi. Puzza di fata bianca e Luna Rossa, un cocktail micidiale.
Dei passi si avvicinano alla porta. Senza darmi il tempo di pensare mi afferra per il polso e mi trascina nel bagno. Silenzio. Ancora una volta dobbiamo restare immobili, in silenzio. Sale sul water e si accuccia, mi fa cenno di fare qualche rumore, di far finta di piangere e lamentarmi.
Osservo le scarpe rosso scarlatto della ragazza appena entrata. Mi appoggio a lui. È buffo starsene nascosti così. Mi fa pensare a quando ero piccola e giocavamo a nascondino con gli altri bambini e a volte ci si metteva in due sotto lo stesso armadio e allora ci veniva da ridere. E anche adesso mi viene da ridere proprio mentre dovrei fingere di piangere. Per fortuna la ragazza apre l’acqua, la sento che si sciacqua le mani, poi chiude il rubinetto e si incipria. Poi il portacipria si chiude. E arriva l’odore. Si è data una bella spruzzata di profumo. Un profumo che detesto, un misto di rosa e verbena. Un profumo kitsch. Come il suo vestito. Non lo vedo ma posso immaginarlo. Pizzi rossi e nastrino al collo. Monocromatica. Mi viene il voltastomaco solo a pensarci. I guaiti da sbronza mi riescono meglio adesso.
La porta cigola. È la stessa voce di prima. L’uomo dalle mani ingioiellate è tornato! Non resisto e guardo dallo spioncino, mentre l’altro cerca di fermarmi ma non ci riesce.
“Allora, non è lì il nostro amico?”
“No, tesoro non c’è nessuno qui, solo una pollastrella mezza fatta. Deve essersene andato via da un pezzo. Peccato, davvero.”
Lo sparo mi trapana la testa. Uno schizzo di sangue zampilla sul vestito della ragazza che rimane impietrita, cadaverica. Anche se il cadavere non è lei. Lui mi ha messo la mano davanti alla bocca per non farmi gridare. Mi stringe forte. Sento il suo corpo contro il mio. La sua testa vicino al mio collo. Mi respira addosso. Poi mi scansa la testa con delicatezza quel tanto che basta per guardare. Vuole vedere anche lui gli schizzi sullo specchio. E sul volto da pagliaccio triste della donna i segni inequivocabili della morte del suo nemico.
Arriva il servizio d’ordine. La ragazza viene accompagnata fuori. Poi portano via il cadavere. Una ragazza asiatica viene a pulire il sangue. I suoi occhi scuri non tradiscono il minimo stupore mentre pulisce lo specchio, mentre le sue dita coperte da sottili guanti bianchi fanno scivolare il sangue nello scolo del lavandino.
Io e lo sconosciuto abbiamo capito che ci vorrà tempo, che non possiamo uscire fino a che tutto non sarà finito. Ci dividiamo il water e lo spioncino. Muti, silenziosi. La ragazza delle pulizie sa che ci siamo. Pensa che stavamo lì per fare altro. Anche se è vietato. Ma non dice niente. Non ha voglia di tradirci. Tanto meno dopo aver pulito le budella di un dealer che non conosceva nemmeno.
Finalmente ha finito ed esce, e anche noi usciamo da lì.
“Deve essere stato Martin” dice lui spiando attraverso lo spiraglio della porta per assicurarsi che nel corridoio non ci sia nessuno “Ha difeso il suo territorio. Ognuno ha il suo, non si può violare. Non lo sapevi?”. Non rispondo. Non ho voglia di parlare.
Sgusciamo fuori, il locale è mezzo vuoto, ma la musica suona ancora, più bassa. Nessuno ha chiamato la polizia. I panni sporchi si lavano in famiglia. Questa è una cosa che tutti i frequentatori di night sanno. Ci sono agenti però, agenti in borghese, infiltrati. Sono in tanti. Passiamo di lato al bancone. Un uomo con una collana d’oro e una bottiglia di birra in mano ci guarda passare. Ha l’aria triste. Fissa l’uomo davanti a me per qualche istante.
Ho fatto bene a salvarlo? Avrei dovuto lasciare che lo prendessero e gli sparassero? Adesso ci sarebbe lui lì sotto quel lenzuolo nero al centro della pista.
E mentre penso a questo, lui mi afferra la mano e mi trascina fuori.
“Ti devo un drink almeno” sorride amaro sotto le luci dei lampioni al neon “andiamo in un posto più tranquillo”.
Ed è così che finiamo in un piccolo bar tutto nero, The Reflex, sediamo sui divanetti in giunco, uno di fronte all’altra, e ordiniamo un Punch Maison. I tenutari sono due omosessuali cinquantenni. Uno grasso e barbuto che si occupa dei conti, l’altro biondo, femmineo, elegante.
È lui che ci serve da bere e mette del vecchio jazz del 20 secolo. Mi piace questa musica morbida. Ci sono pochi avventori. È il posto ideale per un preludio alle lenzuola o per le confessioni che sono state trattenute tutta una vita.
Lo guardo meglio adesso. Le luci soffuse gli donano. È di bell’aspetto infondo. Se solo avesse l’aria più sana, se si curasse di più. Se solo non fosse un uomo dipendente dalla bianca frontiera. Allora forse potrei anche considerare l’idea di fare sesso con lui. Beve una sorsata, mi guarda e sorride. La luce crea riflessi ora bluastri ora violacei sulla sua camicia.
Cominciamo a parlare e finisco per raccontargli dettagli della mia vita che non racconterei mai nessuno. È solo uno sconosciuto infondo. Non so neppure il suo nome. È più facile così.
Ed è così che un Punch dopo l’altro gli parlo di Galad e finiamo a discutere sui rimescolati. E lui si scalda. Anche se le sue mani agili si muovono più lente, anche se la sua voce comincia a strascicarsi. Sarà il mix di alcool e fata bianca, ma i suoi occhi cominciano a brillare di un ardore non convenzionale.
Le sue idee sono devianti, ultra permissive. Quasi anarchiche. Comincio a sospettare che nasconda qualcosa. Che sappia sui rimescolati molto più di quel che dice.
Ma di una cosa sono convinta. Non può, non può essere anche lui uno di loro. Se lo fosse, mi guarderebbe come mi guardava Galad, se lo fosse mi prenderebbe tra le sue braccia e non vorrebbe lasciarmi più. Perché ho paura che siano proprio questo i rimescolati. Due braccia che ti stringono e non vogliono lasciarti più.
Vado alle toilette. E lì davanti allo specchio esito. Potrei andarmene e non incontrarlo mai più. Dimenticare quello che mi ha detto. Dimenticare quello che ho visto. Oppure potrei tornare al tavolo e andare fino in fondo alla questione.
Mi tampono il viso di cipria. E mi mordicchio le labbra fino a che sono più rosse del sangue. Esco. Mi avvicino al bancone. L’uomo biondo mi sorride, l’uomo barbuto salta su pronto a prepararmi il conto. Un semplice gesto della mano ed è di nuovo seduto.
Prendo altri due drink e torno a sedermi davanti a lui. E gli racconto la verità che nascondo anche a me stessa. Non so perché lo faccio. Non ce ne sarebbe nessuna ragione. E lui mi stringe la mano e con aria solenne mi fa la domanda che cambierà la mia vita.
E io lo ascolto. E mi fido di lui. Mi fido di lui perché ho tenuto la sua vita tra le mie dita. Mi fido di lui perché lui si è fidato di me.
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