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Non so come la pensiate voi, ma io sono e resto, cinematograficamente parlando, un vile reazionario. Non mi piacciono troppo le rivoluzioni, preferisco i più tranquilli aggiustamenti social-democratici, con film che siano sempre film e non tripudi di pop corn da sabato sera, e attori che, chissà come, chissà perché, rappresentino qualcosa aldilà del sex appeal e della più vana vendibilità da multisala. Va da sé, allora, che il concetto di gotico è per me sinonimo di classicismo anglosassone, di eleganza scenografica, di smunto aplomb britannico incarnato da numi tutelari come Vincent Price o Peter Cushing.
I vampiri (e soprattutto le vampire) sono sensuali come le carnalissime vestali della trilogia Karnstein, ai tempi dei fasti hammeriani, quando Coppola era un cormaniano ortodosso che dirigeva chef-d'oeuvre quali
Dementia 13. E che non s'era ancora bevuto il cervello spippandosi tra succhiasangue fighetti pre-Twilight (il riferimento è al suo
Twixt, ancora inedito in Italia - NdR), troppo impegnati a crogiolarsi al sole e sciorinare romanticherie da salotto piccolo-borghese.
Edgar Allan Poe era ancora uno scrittore rispettato e ammirato, l'horror faceva paura, insomma erano altri tempi.
Detto questo,
The Raven (locandina italiana in apertura, altre foto ai lati, NdR) che di “poeiano” ha solo il titolo del suo ai più misconosciuto poema, è più uno sfrucugliamento anale del pur bravo tecnicamente
James McTeigue (
V per vendetta, piccolo cult post-Matrix) che una pellicola fantastica toccata qua e là da riferimenti letterari. Non che sia un brutto film, ma come competere con le sulfuree fobie
tafofobiche di un Ray Milland o, che so, con le decadenti genealogie à la Rougon-Maquart de
I vivi e i morti? Non c'è possibilità alcuna, per l'appunto, d'uscirne vincenti, se non per le orde chiassose e tamarre di ragazzotti imberbi che spruzzano Coca Cola sui sedili e gozzovigliano poi al McDonald commentando il film di turno, magari paragonandolo pure al videogioco o alla serie televisiva adocchiata poco prima di uscire di casa.
Di sicuro gli intrecci meta-letterari di cui è costellato il lavoro non sono pane per i denti di tutti, perché gli “eletti” che lo scrittore di Baltimora l'hanno sbocconcellato (e che ne ricordano pure gli adattamenti fulciani, argentiani, romeriani) con grande probabilità disertano l'opera di McTeigue rilassandosi con qualcosa di più nutriente sotto il profilo mentale. Ma tant'è. O tempora o mores, e questo è ciò che passa il luccicante convento.
C'è Edgar Allan Poe, interpretato da
John Cusack, spiantato artistoide che racimola danari alle corti di madamazze con velleità poetiche, e che è innamorato della bella e ricca Emily (Alice Eve). Poi abbiamo uno spietato serial killer che inscena efferati omicidi alla maniera di Poe, cioè allestendo il locus delicti proprio come in un racconto del celebre novellista. Ecco che fanno la loro ordinata comparsata i riferimenti ai “testi sacri” del geniale scrittore, come tanti tasselli che, curiosamente, se ne fregano della lezione di un James Wan, tanto per citarne uno, e restano disarticolati rispetto a una più ampia simmetria narrativa.
La Rue Morgue è un prologo, Il pozzo e il pendolo (la cui vittima è un antipatico critico come il sottoscritto) un inserto ficcato nel mezzo per infarcire il sandwich, la lingua di Mister Valdemar una virgola di rosea polpa inchiodata piuttosto che un comatoso revenant di ben altro spessore. Tutto questo perché? Appunto, non si capisce bene. Sembrerebbe che il succitato imitatore voglia costringere l'amato/odiato Edgar a scrivere un racconto a puntate delle sue gesta, usando la vita di Emily come merce di scambio per un epitaffio beffardo e, a ben pensarci, anche poco sensato.
Forse McTeigue, facendosi aiutare da due sceneggiatori ritirati al mercatino dell'usato, tali Ben Livingston, esordiente, e nomen omen Hannah Shakespeare, ha tentato di pisciare appena fuori dal vaso per approntare un capolavoro di bizzarria creativa. Invece ha sparato a salve, facendo il verso allo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, l'insulso paninaro in salsa steampunk destinato a grandi e piccini con la maturità intellettuale di un fagiolo. E finendo per scimmiottare il giallo vittoriano.
Questo Poe spiegato ai poveri sa di burro di arachidi lontano un miglio, e il sottotesto all'ispettore Derrick segna dal canto suo soltanto l'epilogo culturale di un genere. Allora è tutto da buttare? No, perché The Raven è a suo modo simpatico, ineccepibile nella confezione, e se da un lato scatena travasi di bile per la faciloneria con cui il gotico è trattato, ridotto a volgarità per fanciulli e coppiette, abbruttito nel suo manierismo rococò alla Del Toro, dall'altra è difficile non farsi coinvolgere dalla sua stravagante avventurosità.
Non che i fuochi d'artificio vi abbiano una parte preponderante, sia chiaro, sono semmai un inciso battuto a colpi di inseguimenti a cavallo, eppure l'opera complessiva, così banale, priva di una stratificazione, di una profondità, scorre velocemente e in modo del tutto indolore. Un filmetto inutile, ma a volte sono proprio i soprammobili a pepare la sciatteria di un arredamento improvvisato.
Marco Marchetti