Lars Kepler ormai non ha più segreti, non soltanto perché i suoi romanzi sono stati sdoganati nel nostro paese già da qualche anno, ma perché proprio di recente si è scoperta la sua vera identità: infatti dietro questo prolifico (e bravissimo, ammettiamolo) autore scandivano si nascondono i due volti di Alexander Ahndoril e di sua moglie Alexandra.
La coppia, che aveva già maturato esperienza in ambito letterario, non aveva mai pensato di scrivere dei gialli, e forse temeva di pubblicare una serie di libri completamente diversi, tematicamente e stilisticamente, rispetto a ciò che il pubblico si sarebbe aspettato. Così, i nostri baldi scrittori hanno deciso di fare tabula rasa, e di partire ancora da zero con un nome di fantasia. Uno pseudonimo o meglio un eteronimo. Il segreto è però rimasto tale per poco, perché l'incredibile successo internazionale del loro lavoro d'esordio, L'ipnotista (2009), li ha costretti a rivelare la scaltra macchinazione.
La testimone del fuoco (Eldvittnet il titolo originale, in apertura la copertina dell'edizione full price Longanesi, qui a lato quella dell'edizione economica Tea) segue per la terza volta, dopo il già citato L'ipnotista (da cui l'omonimo film di Lasse Hallström del 2012, non malvagio ma neanche eccelso ai livelli di un Lasciami Entrare; sotto a sinistra la copertina del libro, NdR) e L'esecutore (sempre Longanesi, 2010, cover più in basso a destra), le indagini criminali dell'ispettore di origini finniche Joona Linna, questa volta alle prese con il brutale omicidio di una ragazzina disadattata, ospite di una casa famiglia nei pressi di Stoccolma, e di un'inserviente della struttura.
L'indiziata numero uno è la giovane Vicky, una minorenne che subito dopo il fatto ruba una macchina, sequestra un bambino di cinque anni e si dà alla fuga. Purtroppo la giovane ha un incidente, la vettura esce di strada e finisce nelle acque tumultuose di un fiume in piena. A quel punto la polizia sospende le ricerche ormai convinta della morte di entrambi.
Linna è però uno in gamba, e nonostante sia sospeso dal servizio per motivi disciplinari, riesce a farsi assegnare il caso in qualità di osservatore esterno, cosa che gli permetterà, in via del tutto ufficiosa, di proseguire le indagini per conto proprio. Sì, perché il nostro non ha mai creduto, nemmeno per un istante, che la piccola Vicky sia annegata nel torrente, è ragionevolmente convinto che sia viva e che si nasconda presso qualche conoscente. La sua ostinazione non sembra condurre a nessun risultato concreto, almeno fino a quando una medium un po' tocca, Flora Hansen, non contatta le forze dell'ordine dichiarando di essere stata testimone del delitto. La donna si trovava a centinaia di chilometri di distanza da Stoccolma, e ha un alibi di ferro dalla sua. Eppure descrive dei particolari dell'assassinio noti solo agli addetti ai lavori.
Non è soltanto lo stile asciutto del romanzo ad acchiappare il lettore per tutte le sue cinquecento pagine, e nemmeno l'abilissima costruzione della suspense per la quale sarebbe lecito scomodare gli altri grandi maestri del settentrione europeo, i fratelli Hammer in primis. Kepler non si limita a questo (sempre che di limitazione si possa parlare), e ciò che lo rende unico, o per intenderci di gran lunga superiore alla conterranea Camilla Läckberg, è l'incredibile senso del ritmo, che inanella colpi di scena, subitanee rivelazioni e altrettanto incredibili piste false con la stessa destrezza di un Hitchcock. Seguire la sua logica è come perdersi in un labirinto di prospettive asimmetriche, una grande scatola cinese a piani sfalsati in cui ogni soluzione prelude a un ulteriore rompicapo, e per ogni enigma risolto se ne propongono di ancora più complessi.
Ciò che sorprende, in Kepler, è la totale assenza di scene morte, lungaggini narrative e inutili dissertazioni, senza però che i suoi personaggi ne escano mutilati, svuotati di senso, privati di sostanza. La finezza dell'intaglio psicologico è, appunto, scandinava, il senso del paesaggio, e quindi del territorio, dei suoi boschi, le isole, le foreste incantate, è assolutamente invidiabile.
Se un terzo dei nostri giallisti, quelli che spuntano come funghi a ogni kermesse letteraria, riuscisse a descrivere una Roma o una Milano con il medesimo affetto con cui Kepler effigia la sua amata Stoccolma, ecco che avremmo all'istante una nuova generazione di maestri italiani. Se volessimo azzardare paragoni cinematografici, potremmo dire che Kepler sta a Otto Preminger o Robert Aldrich come Carlo Lucarelli sta ai film di Poirot. Insomma, tutta roba nobile o quasi, ma la differenza c'è e sarebbe disonesto passarla sotto silenzio.
Marco Marchetti