“Costretti a sanguinare”? il titolo del saggio di Marco Philopat sul punk milanese (Einaudi 2006) ci ronza nelle orecchie come una base musicale dei Suicide (o dei Chrisma) dopo la visione del superbo allestimento al PAC (fino al 28 novembre) per la personale I Still Love di Franko B, artista molto legato al punk. Non solo perché si fa riprendere con indosso la t-shirt dei Joy Division, ma perché la poetica shock delle sue prime sanguinanti performance, che gli diedero sinistra celebrità nella body art degli anni ‘90 (di cui in mostra vengono proposti estratti video - QUI e QUI - e bellissime gigantografie a colori), è parente stretta di quel “teatro della crudeltà” artaudiano spinto fino al dolore fisico vero e proprio, che spinse proprio Maurizio Arcieri dei Chrisma a tagliarsi un dito durante un concerto in pieno ciclone punk .
Nella sua tappa milanese, Franko B ha incrociato il collega cinese Zhang Huan (mostra Ashman, passata sempre al PAC), che ha realizzato i propri teschi con le ceneri raccolte dalle tumulazioni nei templi buddhisti. Ma – sarà la concomitanza – il suo sguardo dolente a noi porta a pensare a quell’altro imponente affresco sull’orrore a 360 gradi che è la mostra fotografica curata da Germano Celant che dà il titolo al nostro servizio: quella Disquieting Images (alla Triennale fino al 9 gennaio)
che accosta arditamente due cose che abitualmente viaggiaano distinte: il fotogiornalismo documentario (in cui è la realtà a dettare il soggetto, la cronaca) e fotografia artistica (in cui l’orrore è ricerca personale, “creazione” dell’artista) in un viaggio a tutto tondo in ciò che la mente umana in genere preferirebbe rimosso dalla vista.
Se le tante, moderne, plastiche Olimpia della Dorfman (le due foto qui a sin. e destra), vuote e laccate (tranne qualche sottile cicatrice, qualche sbavatura o imperfezione) danno un contrasto agghiacciante tra l'anormale, l'estraneo, e il quotidiano invece ripetitivo, automatico (nel senso di automa, di reiterazione del gesto, di banalità dell'atto), le visioni della Arbus ci conducono piuttosto in un universo kubrickiano ante-litteram. I suoi nani alla Herzog, le sue masquerade sortite dall'Overlook Hotel, i fantasmi di case dimenticate sono il preludio di un orrore più sottile, alla Lynch, che la Sarfati incarna nelle sue androgine figure, nelle (quasi) bambole (dorfmaniane, ma più reali, più vive), nelle grandi e solitarie stanze di Edward Hopper dove tutto può accadere ma nulla accade. Forse.
Questo sguardo femminile, che apre la mostra con il gusto del paradosso (difficilmente si accuserebbe una donna di cotanta morbosità) racchiude ed esaurisce l'inquietudine nell'attesa incerta di un compimento. Sally Mann già si getta nel perverso, coi suoi cadaveri mutilati e putrefatti (realtà documentaria o necro-atrocità degne di rotten.com?) e le sue figliolette piscialetto o nude in contesti domestici, in cui sfugge dove sia l’inquietudine, o se l’autrice voglia suggerire risvolti subconsci non innocenti in quelle situazioni.
La stanza più mostruosa è forse quella dedicata alle malformazioni fetali legate ai bombardamenti chimici in Viet Nam. Pornografia o esigenza documentaria? Ai posteri l'ardua sentenza. In una società in overdose di immagini, dove tutto si compra e si vende, l'eccesso non cade mai nel dimenticatoio, e tutto per giustificare le violenze della guerra e quelle dell'uomo sull'uomo. Il cinema non è da meno, come nel recente A Serbian Film: efferatezze letteralmente torture porn una scena a sinistra), stupri neonatali, incestuosi, in un grand-guignol trasformato all'occorrenza in snuff movie. Al regista Srđan Spasojević si deve senz'altro il (de)merito di aver inaugurato il filone del new-born porn, anche se la sua accozzaglia di perversioni che ricalca e cita il corpse-fucking buttgereittiano, alla fin fine diviene un giochetto fine a se stesso, nemmeno tanto divertente.
La prima trattazione esaustiva dell'orrido in verità la si deve a Karl Rosenkranz, filosofo tedesco che, con il suo Estetica del brutto (1853), tracciò alcune aree semantico-concettuali nelle quali raggruppare e sviscerare il binomio summenzionato. In realtà, per lo studioso non si dà una vera e propria teoria della bruttezza, piuttosto una derivazione logico-consequenziale del termine, ottenuta tramite l'opposizione dualistica tra armonia (e quindi bellezza, regolarità, simmetria) e sgradevolezza (bruttura, sconcezza, sudiceria, mancaza di proporzionalità ecc.). Il brutto è perciò tale in relazione al bello, si confronta con esso e da esso è determinato. Rosenkranz analizza comunque i vari tipi di bruttezza, per esempio il brutto nell'arte, il brutto spirituale, il brutto di natura e così via.
Nel suo recente Storia della bruttezza, Umberto Eco ricontestualizza il dibattito, tentando di mettervi un ordine per così dire tassonomico, e vi pone allora a fondamento alcuni toponimi discorsivi, come per esempio il brutto in sé (la merda), il brutto formale (lo squilibrio relazionale tra le parti) e il brutto artistico. Su quest'ultimo sarebbe utile spendere due parole, perché le teorie estetiche concepite ben prima di Rosenkranz non pongono veti e divieti sulla difformità, affermando addirittura che l'abilità tecnica di un artista possa superare i limiti posti dal gusto comune.
Ma già Plutarco, nel De Audiendis Poetis, sosteneva che il brutto "imitato" rimane tale, ma la bravura profusa nell'eseguire l'opera abbaglia col suo splendore l'iniziale, ontologica bruttezza dell'oggetto. Lo stesso concetto è ribadito anche da Aristotele nella sua Poetica.
Tornando alle Disquieting Images, forse il problema sta proprio nell’impianto della mostra: le sole foto di cronaca (guerre, reduci - qui ai lati quelle di Nina Berman - mutilazioni, mafia, violenze domestiche o religiose, catastrofi), peraltro numericamente prevalenti, potrebbero costituire un percorso della coscienza, un “world press photo” dell’infamia. Ma associate alle foto “d’arte” il concept si sfuoca: viene il dubbio che le poetiche dell’eccesso, del provocatorio, baudelairiane o artaudiane di alcuni artisti facciano tutt’uno con la documentazione degli abominii dell’umanità solo in quanto genericamente “sgradevoli” per lo sguardo medio. Tutto qui? Ma l'eccesso, da solo, non crea una poetica.
Certo, Il confine è d'altronde labile, fugace: è difficile capire gli accostamenti tra una Stephanie Sinclair (e le sue circoncisioni femminili, le ustioni, i corpi scorticati) e un più equilibrato Paolo Pellegrin, tutto in bilico tra stanze, corridoi, camere dimesse e abbandonate, abitate soltanto dai fantasmi sfigurati del Medio Oriente. James Nachtwey lascia perplessi con i suoi mutilati di guerra, ossessivamente ripresi, ammucchiati sotto i ferri, mentre Nina Berman, indagando sul reinserimento dei reduci nel tessuto civile, si accosta alla problematica con più tatto.
Forse la querelle è faziosa, forse divergono soltanto le modalità operative: nel primo caso la crudezza del vero, la ripetizione, la serialità, nel secondo una vicinanza in punta di piedi. Donna Ferrato dal canto suo curiosa negli armadi della famiglia media americana, scovando scheletri ed esibendo esplosioni di rabbia, di follia, conflitti a stento trattenuti immortalati nella somma indecenza dell'obbiettivo fotografico. Genitori che litigano, il marito pesta la moglie, il figlioletto se la ride beato dopo aver tentato di strangolare la sorella. Per non parlare dei club di scambisti, complementari degli scatti settanteschi di Kohei Yoshiyuki con i suoi guardoni omosessuali e le coppiette appartate. Eugene Richards ci porta nei ghetti, tra spacciatori di crack, tossici e disperati vari, svelando il lato oscuro di mondi che, al di là del vil denaro, sono sempre accomunati dalla violenza.
Comunque la vediate, resta che la realtà sconvolge sempre più del film horror di fiction più efferato, ci dicevamo uscendo dalla mostra, ripensando alle abituali accuse di “torture pornismo” che da sempre inseguono il nostro screditato/amato genere cinematografico.
Restando col dubbio di fondo sull’impianto della mostra, rimane comunque aperta anche la ferita di un’arte inguardabile per chi s’aspettasse la celebrazione della Bellezza o una consolazione per l’anima (sue storiche missioni). Sembra che – rapita la “bellezza” da parte del mondo fashion pubblicitario – all’arte contemporanea sia rimasto per converso un ruolo di coscienza storica dell’esistenza del Brutto e della Bruttura.
Per interpretare il rimosso che alligna al fondo dell’animo umano, le correnti più radicali dell’arte – da Mapplethorpe a Franko B, ma anche dal punk all’industrial rock al free jazz concettuale di John Zorn – flirtano con gli unici due mondi che hanno saputo creare sistemi simbolici forti, immediatamente decodificabili da chiunque, e da sempre rimossi in quanto inaccettabili dalla cultura “per bene”: l’horror e il porno. Chi non riconosce fin dalla locandina che un film è un horror (sia che il genere gli piaccia sia che no)? Chi non identifica alla prima occhiata un porno shop o un peep-show?
Ecco allora che, per interpretare compiutamente l’“inaccettabile”, i punk Cramps e Misfits si circondano di un’imagerie da b-movie tra Ed Wood e Bettie Page, i Fuzztones (sopra a sinistra) si fan disegnare in un cimitero alla Zio Tibia, i metallari Iron Maiden (destra) prendono nome da uno strumento di tortura dell’Inquisizione.
Rozz Williams dei Christian Death gira lo pseudo snuff “Pig” (prima di suicidarsi), Nine Inch Nails e Marilyn Manson fanno i video clip che tutti conoscete (quest’ultimo con l’aiuto di video artisti di lusso come Floria Sigismondi, Richard Kern o Asia Argento), di Rob Zombie vi abbiamo già detto (QUI) e lo svizzero Valentin Schartz frulla nella propria video art hardcore, clip di Hitler, maschere di capro sataniche e sculture fetish-mostruose alla Giger (assaggi su www.abyssfilm.ch e nelle foto qui a lato), guarda caso accompagnandola con ronzanti colonne sonore techno industriali. {mosimage}
Il tutto sempre pescando a piene mani da un immaginario porno & horror; genere (l’horror almeno, perché il porno ormai è fuori gioco, se non in casi rarissmi ed estremi come un Subconscious Cruelty o i sopra citati Nekromantik e A Serbian Film) spesso a qualche anno di distanza sviluppa le suggestioni dell’arte contemporanea in forme narrative più comprensibili al vasto pubblico. {mosimage}
E ricambia il favore citando nelle proprie messe in scena artisti e opere seminali, tecniche o montaggi avanguardistici, o commissionando colonne sonore ai rockettari maledetti ancora vivi. {mosimage}
Visionate e meditate, non vi mancheranno gli spunti. A meno che non cerchiate la Consolazione dell’Anima. Perché in tal caso “Alice non abita più qui”.
Mario G & Marco Marchetti