Su Nocturno (magazine di aprile e sito, dove vedete anche il trailer), in merito al secondo, travagliato film di Andreas Marshall, si parla ripetutamente di omaggio a Suspiria: il discorso non fa una grinza, ambientazione in una scuola di teatro (anziché di danza), musica con evidenti citazioni gobliniane (tra Profondo Rosso e Suspiria, diciamo), un'area misteriosa della scuola in cui gli studenti di recitazione possono avventurarsi - se prescelti - a proprio rischio e pericolo, fotografata con gli stessi quadri monocromatici a colori puri e saturi (rosso, verde, blu, come vedete nell'immagine a destra e sotto).
E morti violentissime, ça va sans dire, per mano di uno sconosciuto invisibile dai guanti neri (o addirittura per mano propria, sotto una incontrastaibile induzione psicologica, un plagio, come vedete nella foto qui a sinistra).
Come intuite, ce n'è abbastanza per bearsi dell'omaggio cinefilo o, a seconda dei gusti, gridare al plagio. In realtà, c'è di più: anzi, forse questa veste formale dell'omaggio (dichiarato e appassionatamente difeso dal regista nel corso della presentazione al recente Fanta Festival 2012 a Roma) rischia di mettere in ombra il contenuto più originale di questo Masks (in apertura locandina originale, distribuzione italiana ancora imperscrutabile ma fortemente auspicata), che invece approfondisce un tema tutt'altro che sfruttato nel campo dell'horror. Andreas Marschall - già copertinista metal e autore dell'ottimo Lacrime di Kalì (film in tre episodi che recuperate in dvd italiano CGHV, locandina qui a lato) - deve avere una predilezione per i mostri che si possono portare alla luce attraverso un profondo scavo nei recessi dell'anima: là il grimaldello erano le pratiche mistiche orientali, che gettavano un'inedita luce sinistra sul "solare" mondo della new age; qua sono i metodi di recitazione teatrale, in particolare quei processi di ricerca dentro di sé che dovrebbero guidare l'attore non a "imitare" la realtà, l'apparenza del personaggio, bensì a trovare in sé emozioni più intense in quanto "vere". E fa bene, perché così il suo lavoro scava dentro di noi e non si limita alla riproposizione di stilemi estetici.
Il regista inventa il personaggio del folle regista teatrale Gdula, visionario autore negli anni '60 del misterioso metodo attraverso cui l'attore impara (a proprie spese) a dare vita "più reale della realtà" al proprio personaggio in scena. Persino la timida e apparentemente poco talentuosa protagonista (ma assai volitiva), già scartata da un'altra scuola.
Ma Marschall non inventa null'altro, in realtà, a parte i nomi: già Antonin Artaud nei suoi saggi del primo Novecento (cfr Il Teatro E Il Suo Doppio, Einaudi) parlava di "teatro della crudeltà" in questo senso. Non del grand guignol, dunque, precisava lui stesso, nel senso di 'messa in scena di fatti orrendi', ma di uno scavo dentro di sé da parte dell'attore verso la verità del teatro, da portarsi avanti anche a costo di farsi del male, insomma.
Il concetto (che in parte mi propongo di impiegare anch'io per il mio prossimo romanzo, in una drammatica e 'letterale' resa del concetto di "teatro alchemico") è non 'mettersi una maschera' per recitare un personaggio imitandone l'aspetto e i tratti, ma scrostare tutte le maschere che il nostro vissuto ci ha cucito addosso, per ritrovare dentro di noi la verità profonda di quel personaggio, di quell'emozione. Prima ancora di truccarci, di metterci il costume di scena, di zoppicare come Riccardo II e così via. Ora anche l'horrorista che non sia pure un esperto dei segreti dell'arte scenica (e sono molti, purtroppo i fan dei diversi linguaggi/generi non si mescolano fra loro) capisce che la materia è spessa e promettente, oltre che mai affrontata in questo modo nel mondo dell'horror. In fondo Marschall ha portato il teatro dentro la propria trama ben più di quanto Argento non abbia fatto con la danza, che in Suspiria è solo un corredo scenografico della trama stregonesca, avvicinandosi se mai (ha già notato qualcuno) alla parabola d'immedesimazione tragica del Cigno Nero di Aronofsky.
L'ha fatto ricavando il massimo dai minimi mezzi produttivi che lui stesso spiega d'aver avuto: "Credevo che dopo 'Tears Of Kali' avrei potuto disporre di maggiori mezzi, ma n Germania nessuno finanzia un horror (vi sembra d'aver già sentito il concetto altrove?! - NdR). A un certo punto ho mandato affanculo tutti e ho deciso di autoprodurmi, mantenendo il controllo totale sul film che avrei fatto. Ho trovato una vera scuola di recitazione che sarebbe stata ideale come location e ho proposto alla direzione di lasciarmi girare lì, 'prestandomi' i loro allievi e qualche insegnante come attori. Loro hanno accettato e così ho potuto girare il film con un budget minimo. Anche se poi alcuni dei docenti non erano molto felici di veder rappresentato l'insegnamento della recitazione come un cammino di tortura organizzato", scherza il regista.
Il quale, aggiungiamo noi, ha in quel modo potuto avvalersi anche di un cast valido e funzionale, anche per i personaggi più giovani (per noi tutti nomi sconosciuti), che spesso negli horror (specie americani) peccano di insostenibile 'bambocciume', mentre qui risultano credibili anche nei momenti più drammatici. Anche quando la sceneggiatura impone loro passaggi un po' cliché del genere, come l'ostilità degli allievi della scuola per la nuova arrivata, la bella odiosa che le seduce il fidanzato, lui che scompare per mezzo film ma di colpo la vede sbocciare in scena e capisce che "è in pericolo e deve lasciare la scuola".
Cose così, peccatucci veniali in un horror, che forse si sarebbero potuti evitare con maggiore attenzione alla scrittura del copione che alle citazioni del giallo italiano anni '70 tanto caro al Marschall (che oltre Argento cita con deferenza Bava, Margheriti & company).
Allora sarebbe forse stato un autentico capolavoro, e non "solo" un ottimo horror, ciò che appunto è; di quelli che sanno alludere a qualcosa di oltre da sé, qualcosa che.... a nostro rischio e pericolo, possiamo solo andare a cercare in fondo al nostro pozzo oscuro.
Un horror che si fregia di gustosi inserti mockumentary sporchi e sgranati sulle lezioni storiche del metodo Gdula, con attori in abiti anni '70 e gustosi momenti Seventies anche nella colonna sonora "prog settantina" ricca di Hammond e con puntate nel sound deeppurpleiano (il gruppo che Argento avrebbe voluto per Profondo Rosso, ricordate?). E che si conclude con un finale spiazzante e mostruoso, paravampiresco e con una pennellata politica, purtroppo solo accennata, che ovviamente vi lascerò scoprire senza rovinarla qui. E sappiamo quante idee originali franino al momento di tirare le fila.
Ora non resta che sperare che qualche distributore italiano trovi dentro di sé la forza di farlo vedere anche fuori dai festival, benché non sia made in USA, non il remake o il dodicesimo sequel di un titolo famoso e non schieri divette trendy in locanndina.
Mario G