Capita spesso al vorace cinefilo di avere l’impressione d’aver “già visto tutto” e che ormai andare al cinema sia un po’ un rituale compulsivo in cui alla fine si esce commentando il dosaggio degli ingredienti di una ricetta comunque ormai nota. Bene, la coppia formata Giulia Brazzale e Luca Immesi (che vedete a lato non meno teatrali dei loro attori in una foto sul set) è qui per smentirci, dato che i loro film si situano felicemente ai margini di qualsiasi altra cosa sia dato vedere sugli italici schermi di questi tempi.
Già da noi recensiti col loro debutto Ritual – una storia psicomagica, la giovane coppia registica per il proprio secondo parto cambia completamente registro narrativo e tematiche, pur mantenendosi fedele a quel “realismo magico” jodorowskiano che ormai si portan dietro come marchio di fabbrica (anche se qui Jodo non è presente in forma di cameo): dall’intimismo onirico del primo film infatti passiamo a un picaresco storico, in cui però va riconosciuto che un cameo del Grande Cileno non avrebbe stonato (invece troviamo Cosimo Cinieri, attore di Carmelo Bene, nel ruolo del Generale che invoca a gran voce la bellezza della guerra).
Ci troviamo in un imprecisato bosco veneto senza precisi riferimenti geografici: qui il Capitano (Livio Pacella) ha stanziato il proprio carrozzone di guitto e – seguito passo passo dal fedele “Scudiero”, apparentemente inconsapevole persino d’essere una donna (Desireé Giorgetti, attrice teatrale già protagonista di Ritual, abile nell'uscire dal cliché di femme fatale e/o vittima sacrificale) – rimette in scena le proprie giullaresche narrazioni di epiche battaglie fra ragni e formiche agghindati entrambi in buffi costumi da piloti rétro. Non essendo un fan della comicità giullaresca (verrebbe quasi da dire tra il felliniano e un pasoliniano Uccellacci e uccellini), devo ammettere che l’inizio del film mi ha un po’ preoccupato. Ma, quando i due incrociano sul proprio cammino il Soldato (Dario Leone), piombato col paracadute nello stesso bosco, tramortito dal Capitano e quindi immemore della propria identità e della propria missione in quel luogo, inizia una ricerca che ancora una volta capiamo essere interiore ancor prima che storica. E che l'apparente caos grottesco un senso ce l'ha eccome (di seguito ve lo spieghiamo, anche con qualche spoiler sulla trama).
Insomma, in che guerra ci troviamo? Le rievocazioni del trio di bislacchi protagonisti intrecciano senza soluzione di continuità episodi della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, in cui vediamo sempre lo stesso trio d’interpreti impegnati ora come fanti della Grande Guerra in trincea contro gli austriaci (con le loro puttane al seguito, qui a sinistra la felliniana performer Francesca Arri), ora come partigiani in lotta contro i nazisti. Ma l’espediente iniziale delle buffe “batracomiomachie” narrate nel teatrino itinerante dei due guitti serve a significare che alla fine tutte le guerre si somigliano. E che le loro tragedie ci imprigionano senza lasciarci via d’uscita dall’eterno ritorno che c’imporrà di riviverne costantemente le inutili stragi, le crudeli rappresaglie, le famiglie distrutte, gli innocenti sterminati per vendetta e tutto il tragico corteo in un disperato nastro di Moebius esistenziale.
Attraverso il Soldato, lo Scudiero scoprirà d’essere una donna, sognerà che lui la “porti via con sé”, ma purtroppo non c’è fuga dal proprio destino: il trio rivivrà infine la faida storico politico sentimentale di una coppia di fidanzati che si separa perché lui va sui monti con la Resistenza, lei lo crede morto e quindi si sposa con una “buon partito fascista” e s’incammina verso quella che parrebbe – se non il coronamento della passione – quantomeno una “vita normale”, finché il destino non porterà tutti e tre al sanguinoso confronto finale (che vi lascio scoprire vedendo il film in sala).
Tratto da un testo teatrale (Le guerre orrende, appunto) scritto nel 1997 da Pino Costalunga, il film dei due giovani registi (ottimamente fotografato in parte a colori e invece in b/n nei flashback storici, vedi foto a lato) acquisisce l’h di horrende dal Machiavelli in riferimento alle Grandi guerre d’Italia, ma inanella anche citazioni di versi di Folengo, Ruzante, degli anonimi pavani, Pessoa, Apollinaire, Govoni. L’impianto narrativo dunque, oltre che non lineare, è dunque marcatamente teatral/poetico, oltre che punteggiato da raffinati inserti musicali di Fauré, Saint-Saëns, Verdi, insomma i compositori che potevano ascoltare i protagonisti all’inizio del secolo. Potrebbe risultare irritante per chi non sappia inserire tutta questa “artisticità” nel giusto contesto, un po’ come un’esibizione da “primi della classe”, ma se vi fate trascinare nel gorgo dei tragici eventi rievocati scoprirete che tutto ha un suo senso.
E, se temevate di vedere il “solito film d’autore italiano”, avrete una gradita sorpresa: Le Guerre Horrende può vantare sicuramente il merito di non assomigliare a null’altro in circolazione in Italia in questo momento, se non alla singolare visione dei suoi autori. Rara avis, va detto.
Mario G