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Due donne.
Chiara, insegnante di ballo.
Sole, studentessa universitaria costretta a prostituirsi.
Le loro vite si incastrano in un legame inaspettato e toccante.
Una storia di vendetta.
La cronaca nera diventa fiction.
Come nella realtà (nella fiction? nella docufiction? nell'infotainment?
nel webloggingcybersquattingsocialnetworking?).
Slavedrome - omicidio in rete nasce come soggetto cinematografico, la cui struttura drammaturgica attinge a recenti episodi di cronaca realmente accaduti in Italia.
E' la seconda regia di Federico Cambria (anche autore di cortometraggi e spot pubblicitari, tra l'altro) nel campo di quell'esplorazione del multimediale in scena, che l'ha portato a collaborare con Antonio Syxty per Mi Ami? della passata stagione.
E' evidente la citazione cronenberghiana nel titolo (Videodrome). Ma il capolavoro dell'82 del Maestro Canadese sul collasso della realtà sotto la valanga televisiva rischia di depistare le vostre aspettative: i media sono presenti in scena, effettivamente, anzi punteggiano lo svolgimento della trama, quasi lo guidano in un isterizzante balletto di chat, skype, cellulare, citofono. I visitatori al citofono dell'appartamento delle due ragazze noi spettatori li vediamo proiettati sugli schermi video che ci rimandano anche le scene che si svolgono in esterni rispetto all'appartamento, che rimandano decisamente all'origine filmica del progetto di Cambria.
Comunque, l'affollamento mediatico non si fa mai segno di destrutturazione linguistica, come nel film di Cronenberg o in tutto il cinema recente di David Lynch (diciamo da Strade Perdute in poi), cui pure è dedicato il testo di Cambria. I media non cancellano la realtà né la rifrangono in una miriade di specchi deformanti (come accadeva se mai in Inland Empire, più vicino a uno spettacolo sperimentale come Visioni di Solaris).
La trama segue uno sviluppo logico e le motivazioni che guidano il lucido progetto di vendetta dell’ex ballerina Chiara sono perfettamente chiare e comprensibili. Se mai resta meno definita la psicologia della più giovane e selvatica Sole, con la sua dipendenza sessuale dal torvo padrone di casa, ma forse questa è una scelta registica. Le sue emozioni ci arrivano prevalentemente in forma mediata, attraverso i brani poetici rubati al suo diario segreto e ingranditi sui videoschermi.
Lynch e Cronenberg a parte, Slavdreome è un lavoro che si segue con piacere fino alla fine, come si fa appunto con un buon giallo (magari un po’ sbrigativo nel finale). Diverte a più riprese la satira dello slang e dei costumi di questa tribù 20something, in perenne “sbatto” fra discoteche, sballi un po’ coatti, ma contemporaneo attaccamento a una “normalità” mai messa in discussione (spaccio droga per guadagnare mentre aiuto mia moglie a tirare a mano la pasta!).
Staccandoci dai riferimenti cinematografici e restando in campo teatrale, a me ha ricordato nettamente lo spettacolo del teatro dell’Elfo visto parecchi anni fa Resti umani non identificati (e la vera natura dell’amore) dal testo di Brad Fraser (da cui peraltro è stato tratto nel ’93 anche il film
Certo, quella drammaturgia degli anni ’80 sovrabbondava di segreterie telefoniche, gadget-mito di un’epoca che ci sembra preistorica, in cui internet e i social network erano di là da venire. Oggi le chat, i forum, i sistemi di messaggistica istantanea e le altre tecnodiavolerie in cui si disperde la nostra attenzione ci aiutano a spezzettari i “frammenti di un discorso amoroso” (e non solo) in un modo moooolto più… ecco, sì: cronenberghiano?!
Lo spettacolo resta in scena nell'ombra della sala Cavallerizza del teatro Litta fino al 18 febbraio.
Buona multivisione.
Mario G