Jackie Cogan (Brad Pitt, sotto a destra) è un sicario che uccide dolcemente, con un rispetto limitrofo alla sacralità, ed è tutt’altro che accanito. Al massimo, solo un tantino mellifluo nei modi. Fa fuori le sue vittime in repentine esplosioni di violenza evitando complicazioni e strilli, soffocando vite col suo implacabile tocco chirurgico. Due balordi fanno un colpo a una bisca clandestina pullulante di boss mafiosi, l’azione criminale sul momento ha successo ma i due ben presto dovranno fare i conti con le conseguenze delle loro azioni. E allora, per saldare i conti e sistemare il lagnoso affare, si ingaggia proprio Cogan, che garantisce un lavoro pulito e un’anarcoide secchezza nell’esecuzione.
Il terzo film del neozelandese Andrew Dominik, Cogan - Killing them softly, passato senza troppi entusiasmi allo scorso festival di Cannes e nelle nostre sale dal 18 ottobre, è un’ulteriore virata di stile per un regista che ha fatto della reinvenzione di alcuni generi, oggi di moda e relativamente vendibili solo se opportunamente filtrati, il suo indubbio marchio di fabbrica. In principio fu la volta il prison movie di Chopper, a seguire il western allitterante, diluito e neomalickiano L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, opera di feroce e stordente bellezza checché se ne dica, e ora ecco un gangster movie sui generis che tenta di attualizzare un genere da sempre in bilico tra classicismo e modernità all’epoca dell’America di Obama, della Grande Crisi economica e della tensione endemica all’accumulo di denaro da parte di strati sempre più generalizzati di popolazione. Riuscendoci, va detto, solo in parte.
Cogan è un’opera che ha scarso fascino e ancor meno immediatezza, appesantita non tanto dalla sua presunta verbosità quanto dalla pendente zavorra di un didascalismo d’accatto: i filmati tv dei dibattiti elettorali del 2008 che scorrono a mo’ di controcanto di un coro della tragedia greca sono una soluzione spicciola e semplicistica, c’è poco da fare. Senza contare, poi, le ambizioni letterarie mal plasmate. Il testo di partenza è un romanzo cardine del pulp letterario e proviene tra l’altro da uno dei suoi massimi maestri, George V. Higgins, tra gli inevitabili ispiratori di Tarantino e nella fattispecie del suo film “tratto” (si fa per dire) dall’ altro grande pioniere del genere, Elmore Leonard (parliamo, ovviamente, del sottostimatissimo Jackie Brown).
Dominik prende quel romanzo, “Cogan” per l’appunto, dagli anni ’70 in cui è calato e lo trasferisce ai giorni nostri, mantenendo intatto il presumibile apparato visivo che i seventies avrebbero naturalmente suggerito attraverso una pesta e lividissima fotografia e qualche minimo, in tutti i sensi, arpeggio di regia. Il problema è che fa anche pochissimo altro, senza mai galvanizzare davvero la ribollente e incontenibile materia letteraria di partenza, col solo merito di averne asciugato tutte quelle deviazioni collaterali e malsane che decreterebbero la morte di un qualsiasi adattamento filmico. Le ambizioni gargantuesche per altro non giovano: si sa, il pulp delle origini nasce come intrattenimento e ciarpame cartaceo più vicino al feuilleton a puntate pubblicato sui giornali, man mano che il pubblico lo andava richiedendo, che al metaforismo socioeconomico.
Cogan in fin dei conti sembra morto, ma è solo svenuto. Nel suo bellissimo avvio deforma i volti dietro maschere improvvisate e sembra suggerire uno scavo nelle viscere della malavita e delle sue alienazioni che promette ma poi non mantiene affatto. Rimastica qualche stereotipo in salsa goodfellas, primo tra tutti un bolso Ray Liotta dal solito occhio vitreo (sotto a destra), in una sorta di decantazione funebre al capezzale delle estetiche noir e gangsteristiche che furono. Il fumetto à la Zack Snyder che è la sequenza al ralenty dell’automobile, il riferimento ad “amici nervosi” ed al grilletto facile di tarantiniana memoria, le sfocature in soggettive (appannate) e i pezzi di sfoggiata bravura rimandano a un cinema più derivativo che autenticamente postmoderno, un corpo morto lasciato cadere al suolo senza troppa cura a dispetto delle intenzioni ambiziose, preventivamente e inevitabilmente inferiore ai modelli cui s’ispira in filigrana, ruffiano e poco autentico.
In un’America spacciata in cui “sta arrivando la peste”, i pestaggi a ritmo di swing e il rabbioso nichilismo la fanno da padroni senza mai aver la forza di prendere davvero energicamente il sopravvento. Il film, pertanto, dice e si ritrae, allude ma scompare furtivo e accomodante dietro le comode maglie della relegazione in un/nel genere.
Negli USA, improntati al diktat del “just business”, che Dominik ha in mente senza allontanarsi poi troppo dall’asse della realtà, la reticenza di Cogan verso una violenza compiaciuta (ben altre ambizioni strutturali dunque, rispetto al divertito menefreghismo tarantiniano) è una sorta di ultimo baluardo d’integrità, uno scarto non indifferente che lo porrebbe perfino su un gradino morale sopraelevato rispetto alle banche e agli alfieri del capitalismo politico ed economico, fautori di ben altro gangsterismo, quello sì campale, seminale e pericoloso.
Questo il film sembra voler suggerire radicalmente dietro le forme di un neonoir borioso, pretenzioso e manierista, che flirta con le estetiche del miglior cinema degli anni ’70 ma regala un unico vero sussulto epidermico degno di quel cinema glorioso: gli occhi sbiaditi e proni alle lacrime di James Gandolfini dietro gli occhiali trasparenti mentre nel locale si espandono contenute e discrete delle note di scorsesiana memoria.
Ma è una goccia effimera di bellezza in un ocean di soluzioni appannate.
Davide E Stanzione