Il destino cinematografico di Philip K. Dick – in vita scrittore di s/f per pochi – è curioso e beffardo come una delle sue labirintiche trame sulla perdita del senso di realtà e d’identità. Salito a celebrità mondiale grazie a un film (Blade Runner, ça va sans dire) che ne rendeva perfettamente lo spirito pur tradendo alla grande la trama del romanzo di partenza, il Nostro è diventato un autore da cui si ricava ormai circa un film ogni due anni.
Mentre però registi di gran polso come Scott, Verhoeven o Spielberg, pur tradendo la lettera, comunque danno vita a visioni cinematograficamente potenti in sé, i prodotti più recenti (diciamo da Paycheck in avanti) ne hanno vieppiù snaturato le complessità filosofiche in nome di un thriller action mainstream a base di fughe e inseguimenti.
Viva Dick a patto che non sembri più Dick, insomma? Ma il Grande Gnostico si sarebbe riconosciuto in questi film o avrebbe dubitato… di essere ancora se stesso?
Il brillante e spietato confronto di Marco M fra le due versioni cinematografiche di Total Recall è un’affilata analisi di tale decadimento immaginifico.
Signore e signori, la parola all’accusa.
Il concetto di bruttezza cinematografica è quasi sempre riduttivo, giacché, fungendo esso da involontaria sineddoche rispetto al più variegato insieme di film prodotti, non rende mai alla perfezione la tipologia di grossolanità che in qualche modo tenta di rappresentare.
A volte la sciatteria di una pellicola è direttamente proporzionale al grado di profondità che, seppur con involontaria nitidezza, quella stessa pellicola è in grado di rendere, in altre circostanze è piuttosto il tedio a regolamentare le proporzioni (più o meno) auree tra le parti del discorso, e in ulteriori casi ancora è il senso d'inutilità a farsi modello paradigmatico di quanto reso sullo schermo.
Total Recall (locandina in apertura e poster internazionali sopra) rientra nella terza categoria, con l'unica differenza che rispetto ad altri cloni ammucchiati nella risma che tale tipologia presuppone, sospinge lo spettatore a elaborare qualcosa di aggiuntivo rispetto, che so, a un Nightmare remake (o reboot, come si suol dire) o un Dredd. Anzi, per l'operetta buffa di Len Wiseman si potrebbe addirittura scomodare, rovesciandone preventivamente i relativi rapporti causali, la moda ottantesca che, lungo i litorali patri, consentiva a un Bruno Mattei di “rifare” Terminator o a un Ciro Ippolito di pastrugnare con le uova aliene di Ridley Scott.
Il rapporto che intercorre tra i due film, Total Recall e l'originale Atto di forza di Verhoeven (di cui qui ai lati vi riproduciamo due scene fra le più corporeamente weird, NdR), sembra scandito dalle stesse scanzonate contraddizioni che, si parva licet, hanno comunque permesso agli storiografi del cinema, forse per mancanza di specifiche terminologie critiche, di riferirsi ad Alien 2 sulla terra come a qualcosa di simile ma sostanzialmente diverso dal capostipite. E simile, ma diverso appunto, è l'oggetto di singolar tenzone, in questi giorni nelle sale, che cita il padre putativo ma come gretta soluzione di comodo, e che rifiutando la parola remake strizza l'occhio alla più neutrale filosofia del riadattamento.
Un modo per tenere i piedi in due scarpe, verrebbe da dire, anche perché, rendendola con un'equazione quanto mai azzeccata, Wiseman sta a Verhoeven come L'invasione degli ultracorpi di Oliver Hirschbiegel (Invasion del 2007, NdR)stava a quella di Don Siegel, e cioè un modello visivamente prosciugato da ogni innovazione, privo dell'incisività che il progenitore riusciva a comunicare in quanto unicum nel suo contesto. Wiseman di questo si è accorto, e mentre era troppo impegnato a scritturare la moglie Kate Backinsale (qui a sinistra nei panni che furono di Sharon Stone) per rendersi conto che Colin Farrell non aveva né i muscoli di Schwarznegger né l'aplomb buzzurro dell'ex mister Universo, il regista americano ha pensato di fare la furbata, e saccheggiare tutto quel che le mammelle della fantascienza, se spremute a dovere, potevano rendere. In nome del riadattamento tutto è dovuto, d'altronde, anche se questo significa sacrificare “la purezza” dell'originale, cioè non tanto la sinossi del film in sé, e quindi i rapporti tra i personaggi, i loro obiettivi e le rispettive motivazioni, bensì l'essenza concettuale che ne delineava i propositi. Ecco che allora compaiono le macchine volanti, mutuate dal brulicante mondo di Phillip K. Dick, ma che in realtà assomigliano così tanto alle scatolette del Quinto elemento che lo spettatore medio, prima di associarvi il presunto retroterra letterario, di sicuro è più propenso a segnalare la pellicola di Besson come aulico riferimento. E quando qualche dito contrito s'è levato verso il baldo regisseur, pur con tutto il pudore che l'educazione lascia trasparire, subito Wiseman ha liquidato la questione lapalissiana degli androidi (clonati da Guerre stellari) adducendovi niente più che una mera somiglianza cromatica. Fossero stati rossi, dichiara, li avrebbero scambiati per Iron Man.
Ma al di là delle questioni, per così dire, “tecniche”, ripensare Atto di forza era un gioco perso in partenza, non tanto per le physique du rôle che l'altrimenti azzeccato Farrell non riesce (né può) sostenere, ma proprio perché strutturalmente impedito nel ricalcare non un film bensì un sedimento di storia, o di memoria cinefila, che ognuno di noi è costretto a portarsi dentro. Si dirà che il valore del discorso potrebbe farsi equipollente per ogni altra ipotesi (o tentativo) di remake, il che senz'altro conserva delle verità, ma non dobbiamo dimenticare che le colpe di Wiseman non si possono circoscrivere al coraggio mostrato nel maneggiare un oggetto sacro come Atto di forza parte prima.
Se così fosse, potremmo rimproverare a Zack Snyder di aver ripensato (questa volta per davvero) il suo Dawn of the Dead, cosa che sì è stata fatta, ma con risultati in proporzione mirabolanti, perché quello era un altro film, così diverso dall'originale da restare in relazione ad esso soltanto nella misura in cui tematizzava, aggiornandole con invidiabile perizia, le paure dell'epoca romeriana. Il team del nuovo Total Recall (Kurt Wimmer, sceneggiatore di Sfera e Giustizia privata, non è certo un lampante esempio di “auteur” come almeno lo era Dan O'Bannon) non parte da nessuna premessa concreta, ma si inalbera al contrario in una serie di liberissime suggestioni gettate sulla carta seguendo più che l'estro il ghiribizzo del momento.
Dimenticandosi o volendosi dimenticare, ahinoi, che ogni costrutto fantascientifico presuppone, nelle sue attorcigliate sinapsi, una determinazione linguistica, una limpidezza di intenti capace, dunque, di rendere la sua altrimenti ingarbugliata sintassi un esempio di clarté d'écriture, e non solo un'abbuffata caotica di confusionarie percezioni. Il risultato è infatti un mélange da mal di pancia, che scardinando a prescindere l'idea di un film su Marte (che qui scompare del tutto, come le sue affascinanti mutazioni), tenta volgarmente di scimmiottare George Orwell lasciando Dick (già saccheggiato da Verhoeven) ai margini della composizione.
L'idea di far scontrare due superpotenze, Oceana e Eurasia, rispettivamente The United Federation of Britain e The Colony, attraverso le quali si viaggia tramite un curioso ascensore gravitazionale, già rende bene l'idea di un film altro rispetto a quello al quale ci si vorrebbe riferire, e che a questo sintetico prospetto riduce e riconduce tutte le sue presunte innovazioni.Qualche fenditura nella storia la si trova, i rimandi si ramificano in saltuarie congiunture che, rimasticando gli scampoli mutuati dall'originale, alla fine compongono una pellicola che una logica narrativa, per carità, pur sempre la conserva: Douglas Quaid, operaio insoddisfatto del proprio lavoro, si reca alla Rekall, fantomatica azienda esperta in impianti mnemonici adulterati, e qui si fa installare nel cervello la percezione di una vita fasulla, capace di inebriarlo con le sue avventure posticce di cappa e spada, e di donargli tutti gli stimoli mentali e fisiologici che la sua quotidiana esistenza (a dispetto del matrimonio con la Beckinsale, già solo questo motivo di somma invidia) non è in grado di fornirgli.
Le cose vanno male, Quaid si ritrova braccato dalle forze di polizia, e presto scopre che tutta la sua “biografia”, a partire dall'ormai raffreddato matrimonio, non è che un fake mentale ben orchestrato, e che l'apparente consorte, in realtà, è un'agente dei servizi segreti incaricata di tenerlo d'occhio. Quaid non è Quaid perché si chiama Hauser, un ex-terrorista che, catturato, è stato “brainwashed” da non meglio specificati reparti di sicurezza, e programmato per svolgere un'esistenza altrimenti morigerata.
Ma le similitudini sono tutte qui, nel messaggio piuttosto che nell'enunciato, e Wiseman cade sempre nello stesso errore barbino di dirigere il suo film come la brutta copia di Underworld, e cioè spostando la macchina da presa come in un videogioco (vedasi la sequenza in cui Farrell sfugge dai soldati alla Rekall), inabissandola per palazzi spettrali, quartieri goticheggianti e metropoli cyberpunk che solo vagamente ricordano gli spazi inospitali di Dark City. E per ovviare alla mancanza, tenta di farci scordare Marte con rutilanti sequenze action, le sabbie del pianeta rosso con i viluppi tenebrosi dei suoi futuristici agglomerati urbani.
Alla fine, usciti dalla sala, la domanda peregrina che ci serpeggia per la mente è sempre quella: ha avuto senso rifare L'invasione degli ultracorpi senza i baccelli alieni? Decisamente no. E allora perché rifare Atto di forza senza Marte e marziani?
Appunto, perché?
Marco Marchetti