«Ho visitato e ho vissuto in molti luoghi che si possono vedere nei miei dipinti del ciclo No Man’s Land e di alcuni di essi esistono già fin troppe immagini, vecchie appena più di mezzo secolo, che ci mostrano quanto l’uomo sia geniale architetto della propria distruzione». Così scriveva circa cinque anni fa Tom Porta nell’introduzione alla seconda parte (“No Man’s Land” appunto) delle tre in cui s’articolava un suo precedente progetto artistico, icasticamente intitolato “Extinction Agenda”.
La prima parte conteneva visioni di scorci ed edifici caratteristici di Milano ridotti a ruderi, come in una visione post apocalittica, e s’intitola La Nube Purpurea, come il romanzo del 1901 di Matthew Phipps Shiel (edito in Italia da Adelphi), considerato il pioniere della narrativa di fantascienza apocalittica.
«Nell’anno di tempo che ha separato un progetto dall’altro (cioè le due parti di Extinction Agenda, NdR) pare che la sensazione relativa all’abbandono e alla scomparsa dell’umanità abbia preso corpo, seppure non certo per la prima volta, nel cinema, che resta, nella sua essenza, la forma d’arte che sento più affine dopo la pittura. In vario modo, da 28 Settimane Dopo, a Io Sono Leggenda, attraverso episodi di tono minore (ma per me di eguale interesse coreografico) il cinema ci ha mostrato capitali, per motivi differenti, abbandonate e silenti teatri delle avventure di sopravvissuti».
La mostra che ora Tom Porta espone alla galleria Mario Giusti HQ-HEADQUARTER (in via Cesare Correnti 14, a Milano ) s’intitola THE BOX, Beauty Overkill (qui la gallery) e ospita sessanta quadri raffiguranti un teschio umano, tutti diversamente colorati e ironicamente “brandizzati”. Ma pur sempre di teschi si tratta, con tutta la loro portata simbolica. Tra macerie e teschi, prende corpo l’idea di un pittore “postatomico”. Che però l’artista ci sorprende contrastandola fieramente: «in No Man’s Land non ci sono sopravvissuti, non umani perlomeno. Il che costituisce già una prima differenza fra i miei quadri e il cinema apocalittico che citavo, che anch’io guardo con una certa passione, ma che non riproduco pedissequamente nella mia opera. Anche perché i luoghi che io dipingo sono abbandonati, non reduci da un previsto conflitto finale, insomma postatomici, come si suol dire. La distruzione cui assistiamo è quella operata dal tempo, dal suo passaggio. Mi piace osservare oggetti che recano tracce del passar del tempo… È vero, nei dipinti di Extinction non compare mai l’uomo, ma il quadro in sé non fornisce alcun reale indizio sul motivo di questa scomparsa: l’umanità s’è estinta? O gli abitanti di quei luoghi sono emigrati, forse sono solo andati in vacanza…? Quell’assenza, più che una profezia apocalittica, va vista come uno specchio in cui si riflettono le nostre paure, non quelle dell’autore. Se guardando il quadro rispondiamo che sì, l’umanità si è proprio estinta, allora significa che è quello il nostro timore. Se vediamo un’assoluta desolazione è perché forse la solitudine è ciò che temiamo più di tutto».
Eppure, è stato proprio lui ad affermare che nella serie La Nube Purpurea rientra «la passione per un certo tipo di cinema, da 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra a Mad Max, 1997: Fuga da New York e così via». Possibile che siano solo nostre proiezioni?
«No, è vero che sento il fascino per quel cinema sul terrore della fine della civiltà. È come se avvertissi una premonizione, nel senso che ho l’impressione che quel momento prima o poi arriverà davvero e sento che io sarò lì ad assistervi. Io non lo auspico, beninteso, però d’altro canto mi appassiona l’idea di una tabula rasa in cui ogni sovrastruttura della nostra vita venga spazzata via e si torni ai bisogni primari e a dover lottare per soddisfarli. Perché lì viene fuori la vera pasta dell’uomo. È una sorta di rigenerazione della civiltà partendo da zero».
Allora non tanto un Tom Porta “postatomico” ma piuttosto “survivalista”, un po’ come il Burt Reynolds di Un Tranquillo Week End di paura?
«Sì, in un certo senso sì. Ed è per questo che in quella lista di film aggiungerei anche Codice Genesi , il film del 2010 dei fratelli Hughes, che è considerato un titolo minore del genere ma forse sotto quest’aspetto della rigenerazione è uno dei più significativi.
Infatti, anche i teschi di The Box non li rappresento con un compiacimento dark o horror, che peraltro non mi appartiene affatto. La “scatola” del titolo della mostra si riferisce esattamente a ciò che l’immagine ritrae: la scatola cranica del corpo umano. La quale a ben guardare porta con sé questa simbologia legata alla morte solo nella cultura cristiana, benché il teschio sia un’icona presente praticamente in tutte le culture del mondo. Altrove rappresenta più il trascorrere del tempo, oppure un’idea di totale nudità del corpo… Ecco, secondo me la serie dei teschi è soprattutto un lavoro su un’estetica (ciò che alla fine è ogni forma d’arte) attraverso la spoliazione del corpo di ogni valenza estetica. Una decontestualizzazione in cui il numero di multipli del soggetto e i colori spiazzanti che caratterizzano ciascun’opera, rendendola di fatto un unicum, hanno a loro volta un’importanza tutt’altro che secondaria».
Tom Porta, il survivalista, è nato nel 1970 a Milano, dove tuttora vive e lavora in attesa dell’apocalisse, dipingendo, suonando la chitarra elettrica… dipingendo chitarre (un futuro progetto con Steve Vai prevede una mostra dedicata interamente alle chitarre), ed esorcizzando la fine facendo motocross o pilotando aerei (altre passioni del vorace artista). La mostra THE BOX, Beauty Overkill, se null’altro interviene a stroncare la civiltà italiana al giro di boa dell’annata, sarà visibile fino al 15 gennaio 2016. Intanto, il reboot di Mad Max: Fury Road di George Miller (di cui abbiamo linkato il trailer sopra) è stato votato dal National Board of Review miglior film dell’anno… che ci sia qualcosa da capire sotto?
Mario G