La risposta all’interrogativo che si ponevano i cultori di quei due film australiani giunti in Italia all’inizio degli anni Ottanta con i titoli Interceptor e Interceptor – Il guerriero della strada è finalmente arrivata. Mad Max è tornato. Il vero Mad Max di George Miller (regista di tutti e quattro gli episodi, di cui il terzo a quattro mani), con la sua brutale efficacia di antieroe.
È tornato con il volto di Tom Hardy al posto di quello di Mel Gibson, a trent’anni dal lancio del terzo film di quella che poteva diventare una serie fortunata, ma che nel passaggio dal cinema indipendente down under alle grandi case di produzione californiane aveva perso la propria forza originaria, ponendo fine allo spettacolo.
I due film di esordio, Mad Max (1979) e Mad Max 2/The Road Warrior (1981; in buona parte del mondo il secondo non era presentato come seguito del primo) erano piuttosto grezzi, brutali ma ricchi di inventiva. Il primo era un poliziesco estremo degli anni Settanta, imperniato su uno sbirro motorizzato nel caos dell’Australia rurale del prossimo futuro, tra inseguimenti a tutta velocità, biker strafatti e ultraviolenti e vendette disumane. Una fantascienza distopica in cui di futuribile ci sono solo lo scenario degradato e gli autoveicoli ultrapotenti, tra cui la Interceptor che dà il titolo italiano al film.
Il secondo era un western post-apocalittico ambientato in una Terra Desolata, in cui Max è uno "straniero senza nome" che alla fine prende le parti di una comunità pacifica assediata da biker ancora più strafatti e ultraviolenti dei precedenti. Un film efficacissimo e innovativo, esteticamente anni Ottanta, in cui i cattivi seminudi sembrano avere saccheggiato un negozio di abbigliamento sado-maso, mentre una vestitissima guerriera buona sfoggia vistose spalline imbottite. La componente della velocità è ancora più esaltata rispetto alla prima pellicola.
Il terzo film – Mad Max oltre la Sfera del Tuono del 1985 – riprendeva le ambientazioni di frontiera in chiave più apertamente post-atomica, con le spalline di Tina Turner ancora più imbottite, ma sostituiva il surrealismo grottesco originario con lo squallore e l’umorismo fuori luogo, e rinunciava al tema principale della serie: la velocità. Ci arrivava in ultimo, ma con una sequenza che sapeva di compitino svolto più con mestiere che con entusiasmo. Succede, quando un film ha l’aria di un prodotto elaborato a tavolino, con l’intento di ampliare il pubblico a fasce cui non importa molto dell’ispirazione originale, deludendo alla fine tutti quanti.
Non è quello che accade, per fortuna, con Mad Max – Fury Road (2015). Certo, è cambiato il modo di fare cinema spettacolare, ma quando gli effetti speciali non sono impiegati in sostituzione della trama, bensì per realizzare scenari degni di una graphic novel particolarmente ispirata, si raggiungono vette grandiose di epica popolare. Con tanti saluti alle spalline imbottite, si riprende lo spirito de Il guerriero della strada con un Max leggermente diverso, sull’orlo della follia, ossessionato dalle visioni di tutti coloro che non è riuscito a salvare. Anche stavolta non vorrebbe prendere parti, ma è costretto ad allearsi con Furiosa (Charlize Theron, che vedete con Hardy nella foto qui a lato, NdR), guerriera e truck driver con un avambraccio metallico, in fuga dalla cittadella di un ripugnante cattivo dal corpo in suppurazione (Hugh Keays-Byrne, già avversario di Mel Gibson nel primo Interceptor) che nasconde il viso dietro una maschera che sembra concepita da un tatuatore impazzito.
Torna la velocità, che accompagna l’intera pellicola dando però enorme valore a ogni momento in cui la fuga si interrompe. Torna il surrealismo grottesco, che si evidenzia anche nel camion che accompagna la squadra punitiva, con a bordo suonatori di tamburo e un solista hard-rock per accompagnare dal vivo le battaglie. Torna il western post-apocalittico, in cui non c’è umorismo gratuito, semmai l’ironia del destino: per esempio, nel giovane e sfigatissimo Nux (Nicholas Hoult) – uno dei guerrieri rasati e dipinti di bianco pronti a immolarsi in nome del cattivo nella speranza del Valhalla – le cui azioni kamikaze non vanno mai a buon fine. E già che ci siamo, tra alcune intense presenze femminili, si manifesta anche una sdrucita Megan Gale, molto più affascinante della sua versione pubblicitaria ultra-patinata del decennio scorso.
Nel complesso, Fury Road è una pura follia estetizzante che sembra fuoriuscita dalla copertina di un disco metal, una miscela di bellezza e mostruosità per raccontare in fondo una storia conosciuta: un viaggio alla ricerca di una Terra Promessa che forse non esiste, in cui gli eroi trovano quel tanto di salvezza e redenzione solo per il fatto di restare vivi sino alla fine.
Andrea Carlo Cappi
P.S.: Nel porgere all'amico Andrea il benvenuto su Posthuman - dove speriamo di tornare ad ospitarlo presto - vi segnaliamo in chiusura che il papà di Medina (su cui torneremo a breve) dedica un excursus ancora più dettagliato sulla saga di Mad Max sul suo blog Borderfiction: Mad Max: su tutte le furie.