Gli inglesi in questi giochi al massacro son sempre i più affilati. Infatti Bull, testo del 37enne oxfordiano Mike Bartlett (autore anche di un episodio di Doctor Who!), taglia come un rasoio senza ricorrere ad allegorie di Kràtos e Bìa, metafore o rivisitazioni di classici, ma sbattendoci in faccia null'altro che lo squallido parlar quotidiano da ufficio, o meglio da team meeting (com'è più trendy dire) in cui si consumano le "normali" tragedie di migliaia di schiavi incravattati delle economie "avanzate", anche qui, nel Belpaese divenuto baluardo avanzato del neoliberismo post recessione.
In una non meglio precisata grande società, tre dipendenti - due uomini e una donna - attendono il colloquio con il tagliatore di teste (moderna declinazione del boia) chiamato a decidere chi dei tre dovrà essere sacrificato sull'altare dell'inesorabile "ridimensionamento delle risorse umane", ossia licenziato, come si diceva in una remota era sindacale (gli inglesi direbbero più asetticamente "made redundant", ben ricordo quando fu detto a me).
La situazione, già in sé straziante, si trasforma subito in un vero ring di lotta libera senza esclusione di colpi, ottimamente reso dallo spazio scenico rettangolare delimitato da ringhierine metalliche ideato dal regista Fabio Cherstich.
Lotta che naturalmente non si svolge affatto ad armi pari, perché i due yuppie più efficienti e lustri, in forma e "performanti" quanto spietati, hanno già deciso che il terzo collega, Thomas, nervoso e già stressato in partenza, con un imperdonabile velo di pancetta e più debole sotto ogni punto di vista, è l'anello debole: se si coalizzano per metterlo alle corde sarà lui l'anello sacrificale della liturgia della ristrutturazione e loro avranno così... sì, il culo salvo.
Parte così un gioco al massacro di sottili (e anche meno) punzecchiature, sardoniche provocazioni, aperti sgambetti (il team leader cela al collega di dover presentare i propri dati di vendita al tagliatore per farlo arrivare al colloquio già in difetto), che investono senza esclusione di colpi ogni aspetto della vita, anche extra lavoro: aspetto e forma fisica, rapporti con l'altro sesso, persino l'essere astemio come sintomo di mollezza caratteriale. Vero abecedario di bullismo in giacca e cravatta (o tailleur con minigonna), che ben presto trasforma la vittima designata in un disperato toro da corrida, che s'affanna a caricare per difendersi da eleganti spadaccini che hanno già vinto in partenza.
Nello scontato, tragico finale, la bella senz'anima Isabel infierisce sul fantozziano Thomas, ormai anche fisicamente al tappeto, con un acuminato monologo che salda la logica del "lavoro come jungla" a un dato umano più... viscerale, direi quasi fisiognomico: Isabel ammette che, col suo atteggiamento debole e "da sfigato", Thomas attira la protervia su di sé, quasi la chiama. Per questo lei s'accanisce, non solo con la crudeltà della savana (mors tua vita mea), ma anche con gusto. Quel gusto che distingue appunto la belva umana dai predatori animali.
Una crudeltà che è in fondo l'anticamera di ogni fascismo, che oggi osserviamo sgomenti risorgere come i funghi dopo l'acquazzone in ogni angolo del globo contemporaneo. Che noi stessi abbiamo lasciato imbarbarire al grido di "efficienza, flessibilità, competitività". E che ora continua ad ingoiare sempre più vaste schiere di esseri umani non pronti ad esser tutti duri, vincenti, killer professionali "focalizzati sull'obiettivo" come "Tony spacca". Ma che - come Thomas, significativamente l'unico di cui veniamo a scoprire anche la vita privata - hanno emozioni, debolezze, sentimenti infranti e persino figli da mantenere. E un futuro senza speranza di successi davanti a sé.
Ottimi tutti e quattro gli interpreti: odiosa e bravissima Linda Gennari-Isabel nell'alternare la dura manager alla donna sexy alla collega finto-simpatica, virtuosistico e spiritoso Pietro Micci-Tony che spacca il debole fin dai suoi addominali scolpiti, nervoso e fragile Andrea Narsi-Thomas, pronto a cadere ingenuamente in ogni tranello, infido nella sua finta umanità il tagliatore Alessandro Quattro-Carter, dall'inquietante aplomb dalemiano.
Bull è in scena al Teatro Franco Parenti (che l'ha prodotto) fino al 7 maggio: spettacolo non solo consigliato, ma raro esempio di teatro che riesce ancora a toccare profondamente i nodi brucianti della società contemporanea. E per questo, al di là della tenitura teatrale pura e semplice, sarebbe da far vedere nelle scuole, nelle assemblee sindacali, nelle tepide enclave politiche che hanno lasciato che la nostra vita quotidiana contemplasse questa "normalità".
Mario G