“L’umanità ti deluderà…”, profetizza desolato Ermes all'idealista Prometeo. Subito dopo, questi (Riccardo Buffonini) ammette sconsolato che dopo 2500 anni di dannazione da parte di Zeus nulla è cambiato: l’umanità – nonostante il suo dono pagato a caro prezzo – ha sostituito gli antichi dèi coi politici, cui affida il proprio destino con pari cieca fede.
È il finale, invero un po’ didascalico, appositamente scritto dal regista Pasquale Marrazzo per guidare l’antica tragedia di Prometeo Incatenato verso una metafora contemporanea. “La contrapposizione al potere, la sfida nei confronti di un dio che nega la conoscenza all’uomo, l’orgoglio e la sofferenza di chi sa che non potrà cambiare il proprio destino”, scrive il regista nelle sue note all’adattamento. Un’aggiunta forse non necessaria (come del resto il sottotitolo anglofono The human passion): il testo di Eschilo infatti aveva già una sua struggente modernità nel conflitto così preromantico fra la a legge imposta da Zeus – nuovo “despota dell’Olimpo” assurto al potere con un “golpe” di violenza non inferiore a quella imputata al padre Cronos, divoratore della propria stessa prole – e l’irriducibile empatia del titano Prometeo per quegli “omuncoli che esistono per un giorno appena”. Un coraggio di portare a termine la propria ribellione anche nella consapevolezza di essere inesorabilmente condannato alla sconfitta che, mica per caso, di lì in poi si sarebbe chiamato appunto titanismo.
Una componente, questa dell’idealismo disperato di Prometeo, sorta di giovanile ribellismo, che Marrazzo, regista di questa messa in scena – che MTM (Manifatture Teatrali Milanesi, neonata associazione fra Teatro Litta e Quelli di Grock) ospita nella sala del Litta fino al 20 marzo – ha voluto mettere in luce anche (e molto) attraverso il confronto fisico dei personaggi: il minuto Prometeo-Buffonini vistosamente schiacciato dai due titani-punitori Efesto e Kràtos, inviati da Zeus, ossia i ben più prestanti Pietro Pignatelli e Michele Radice, dalla fisicità esuberante che sembra un po’ uscita dai “300” di Zack Snyder. E anche attraverso i (succinti) costumi di Lucia Lapolla, che – pur servendo un testo riadattato ai tempi – non rinunciano ad riprodurre fedelmente le loriche, le fasce di cuoio borchiate, le polsiere e i calzari degli opliti greci dell’epoca di Eschilo. Eppure evocando implicitamente al nostro occhio maliziosetto anche le bardature un po’ “goth-fetish” da personaggi di una sensibilità più modernamente dark che filologicamente giambica.
Nerovestita anche Desirée Giorgetti come Bìa, poi completamente nuda quando ritorna in scena come Io, cui spetta rivestire la pelle indifesa della donna trasformata in vacca per la gelosia di Era nei confronti delle infedeltà di quel “padre degli dèi” dai comportamenti tanto simili a un mediocre politico contemporaneo. L’unica a condividere un iniquo destino e quindi una forma di comprensione verso il ribelle Prometeo. È all’attrice (dark nel teatro “alto” come nelle frequenti incursioni nell’horror indipendente) che la drammaturgia riserva anche il compito di colmare il ruolo (qui assente) del coro delle divinità acquatiche Oceanine.
La fisicità, più del lògos in sé (forse anche penalizzato da qualche difficoltà acustica a cogliere i dialoghi nella sala del Litta la sera della prima), mi pare la cifra dominante del Prometeo by Marrazzo, che ha scelto originalmente di staccarsi dalla riproduzione di un titano incatenato alla rupe (pur mantenendo i riferimenti al suo supplizio nel testo), come ad esempio vedevamo nella sontuosa messa in scena di Ronconi di alcuni anni fa. Prometeo si muove liberamente sul palco – così rompendo anche la fissità della tragedia originaria – e la sua punizione è rappresentata dai ripetuti pestaggi di cui è fatto oggetto dai due più “titanici” sgherri di Zeus, come bulli in un vicolo mitologico.
La scenografia di Giovanna Angeli, vero colpo di genio della messinscena, rimpiazza poi la filologica roccia con un’astratta selva di listelle di legno (materiale che il regista ci ha spiegato di utilizzare spesso nei propri lavori), che vedete nelle foto ai lati dell’articolo, da cui sbucano e in cui scompaiono gli attori al termine di ogni scena.
Se le loro voci talvolta si perdono nell’elevata cubatura del Litta, il soundscape (pure curato dal regista, attivo anche nel cinema con quattro film alle spalle) è invece molto efficace, sia nei brani strumentali che nelle canzoni, fra cui spicca – scelta significativa e non certo solo “furba” – l’inno all’eroismo “titanico” del compianto (assai più recentemente di Eschilo) David Bowie, “We can be heroes just for one day”, nella versione rallentata, orchestrale e sofferta di Peter Gabriel (da Scratch My Back).
Mario G