David Lynch è un artista che vanta numerosi primati più importanti, fra cui quello d’essere il regista più giovane mai insignito del Leone d’oro alla carriera al Festival del cinema di Venezia, ma (si parva licet) anche quello d’essere l’unico cui il nascente sito Posthuman abbia dedicato l’anno scorso ben tre articoli per uno stesso film! Cioè il fluviale e discusso Inland Empire, che a molti non è piaciuto, a noi sì e molto, e ne abbiamo pure tratto ispirazione per un racconto letterario (qui a fianco l'artista in un autoritratto in mostra).
Potevamo dunque mancare alla sua mostra milanese? Giammai! Ed eccoci qui deferenti a rendervi conto delle nostre impressioni, con l’entusiasmo e il fervido non-professionismo da non-critici d’arte quali siamo.
La mostra, The Air is on Fire, si svolge alla Triennale di Milano e riunisce dipinti, foto, realizzazioni plastiche, installazioni “abitabili” (un salotto ricavato da suo disegno), cortometraggi (proiettati in un teatrino ricalcato su una scena di Eraserhead), nonché una nutrita raccolta di disegni e schizzi provenienti dai taccuini, dai post-it, dai tovaglioli di carta, dai frontespizi di sceneggiature e da qualsiasi supporto cartaceo il Maestro abbia avuto a portata di mano negli ultimi 30 anni per fissare i suoi obliqui percorsi mentali.
Suo è l’allestimento, coi quadri appesi a grandi montanti metallici che reggono gli immancabili sipari come sfondo-cornice, tanto presenti nei suoi film (assenza quasi totale di targhette esplicative di epoche, titoli, materiali). Suo il tellurico, inquietante soundscape che ci accompagna lungo l’esposizione.
Data la varietà dei materiali, delle tecniche e dei periodi, ci troviamo di fronte a un percorso assai eterogeneo, in cui troviamo ovviamente spunti e angosce che probabilmente stanno alla base o hanno nutrito numerose delle visioni cinematografiche per cui Lynch è più noto, ma anche ad un saccheggio libero e asistematico (molto americano, come atteggiamento) dalle avanguardie pittoriche europee del ‘900, surrealismo su tutte, ma anche espressionismo, astrattismo, l’amatissmmo Bacon, la conceptual art… per un autore che già nel cinema ci ha abituati a depistare i nostri miseri tentativi di capire “dove va a parare”, questo è fin troppo, direte voi.
Se però vi procurate una copia del bellissimo catalogo della mostra (pure edito dalla Triennale, 40 euro ben spesi perché contiene anche più opere di quante presenti in mostra!), e fate lo sforzo di leggere i contributi teorici inclusi, v’imbatterete nel dialogo fra il filosofo Boris Groys e il cineasta Andrei Ujica (ambo docenti all’università di Karlsruhe), per nulla scritto in “critichese” e anzi davvero illuminante sul percosro creativo del Nostro e sulla lettura del suo lavoro. Dove si legge appunto di quanto Lynch abbia assorbito delle correnti artistiche europee novecentesche, staccandosi – tramite anche la carriera cinematografica – dal percorso di molti artisti visivi americani della sua generazione, che quando lui iniziava a farsi conoscere andavano rigettando proprio quelle influenze.
Un’annotazione mi ha colpito particolarmente nella lunga discussione: “nel suo cinema Lynch comincia col narrativizzare le immagini per poi cogliere il narrativo nelle immagini”, dice Groys. Illuminante, e pure utile per osservare le oscure opere pittoriche del Maestro: un aspetto su cui mi sono interrogato molte volte era come facesse Lynch a distillare il particolare senso d’angoscia dei suoi film più riusciti, anche attraverso scene apparentemente “di passaggio”; ossia in cui non accadeva nulla di particolarmente drammatico, ma in te cresceva un’attesa spasmodica che qualcosa di drammatico doveva star per accadere, per cui quelle scene immobili non ti risultavano noiose, bensì dei diapason di tensione inesplosa.
Lynch è un maestro a filmare il buio, secondo me: una porta socchiusa in una delle sue deprimenti stanzette d’hotel arredate in retromodernariato e mal illuminate, un corridoio buio, un sipario cremisi dalle ombre pastose su un palco, nelle sue mani diventano come quadri di Hopper. Perfetti, nitidi, realistici… ma inquietanti. Tutto è troppo immobile, congelato nella malinconia, qualcosa di mostruoso deve incombere, ti viene da gridare!
Ecco la dimostrazione della frase apparentemente narcisistica secondo cui i suoi film nascono dalle immagini: veramente nascono come quadri, come opere pittoriche: insomma Lynch parte dall’immagine e ne ricava una (ultimamente molte) storia/e (concentriche), mentre abitualmente il regista medio parte da una narrazione “letteraria” (la sceneggiatura) a costruire i quadri (scene, inquadrature).
Te ne rendi conto meglio alla mostra, dopo che osservi per un po’ l’insistente (e spesso ironicissimo) impiego di vere e proprie frasi scritte, ben oltre il semplice titolo, inserite nei dipinti: “Dio, mamma, il cane mi ha morso”; “Vuoi sapere cosa penso davvero? No” e così via. Il procedimento è speculare: ove nel cinema Lynch scardina la narrazione lineare cui i suoi colleghi tengono tanto, in nome della forza espressiva delle sue visioni nude e ossessioni inesplicate, nei quadri (opere visive statiche per definizione), quanto più l’autore tende ad utilizzare tecniche pittoriche “antirealistiche”, tanto più le accompagna con frasi tendenti appunto a “narrativizzare” l’immagine fissata sulla tela. Come se fosse un fotogramma di un film di cui ci manca il prima e il dopo, esattamente quell’incertezza sui nessi causali delle azioni che genera tanta inquietudine nei suoi personaggi cinematografici.
E, se possiamo anche accettare che – con tutto questo – probabilmente non sarà Lynch a detronizzare Kandinskij, Dalì e Bacon, secondo me questo “quadro” (perdonate il bisticcio!) concettuale vale del tutto la visita alla mostra e l’acquisto del catalogo. Quando poi vi trovate davanti alla serie fotografica dei Distorted Nudes, beh, lì il ciglio posthuman s’inumidisce per forza!
Si tratta di una serie di foto erotiche scansite da un libro (1000 Nudes, c’informa il Maestro) e da lui liberamente rielaborate in Photoshop, per riplasmarle (pur da informatico dilettante) in uno sconcertante “Inferno di Bosch” di corpi mutilati, deformi, fluidi, smembrati o infinitamente flessibili, gommosi, surrealisti e ovviamente postumani quant’altri mai!
No, proprio quant’altri no: il fotografo Joel Peter Witkin (referente riconosciuto) da anni costruisce simili discese agl’inferi di erotismo in cui il piccante del gusto retro (la foto fin du siécle) si congiunge oscenamente alla fantasia più sfrenatamente freudiana nell’immaginare angoli, pieghe di carne, fenditure e penetrazioni impossibili, fusioni di arti e tubi metallici, teste staccate dai corpi…
Trovare l’incredibile nel bizzarro. Ironia spontanea supplementare, essendo i lavori di Lynch eseguiti su foto preesistenti, pose ed espressioni dei modelli rimandono (quando riconoscibili) quelli delle “foto arrapanti” originarie, con un’ulteriore effetto spiazzante nel trattamento deformante. Una vera, morbosa folgorazione!
Inaugurata il 9 ottobre, la mostra resta fino al 13 gennaio ’08: c’è tempo, poi non dite…!
Mario G