"Il senso profondo dell'arte è curare le ferite dell'anima"
(Jan Fabre)
Ora quattro danzatori neri si dispongono in fila a fondo palco, di fronte a quattro argentati. Questi ultimi sgusciano continuamente dal controllo dei neri accennando danze allegre, buffe, discotecare, subito ripresi e rimessi a posto dai loro guardiani in nero. Su di loro, si stende una musica iterativa di Wim Mertens (Maximizing the Audience), in cui la voce della cantante ripete più volte il nome di Richard Wagner. Alla fine le danzatrici argentate si liberano dai custodi in nero e danzano allegramente sul proscenio. Fino ad essere ricatturati.
Per tutta la durata di questa scena, la ballerina al centro continua l’incessante, lentissimo, malinconico moto d’uccello.
Luk Van Den Dries – autore del libro Corpus Jan Fabre (solo in inglese) – spiega che la performance mira a svelare i meccanismi della finzione teatrale, partendo dalla fiaba di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, cui si richiama il buffo tango fra due imperatori completamente nudiche vediamo in scena (foto a destra). E che “la ripetizione in questo universo chiuso diventa disturbante”.
Ha ragione, ma anche nel senso negativo del termine: il minimalismo dell’azione, la reiterazione all’infinito di azioni apparentemente prive di senso (o comunque svincolate dalla bencheminima narrazione logica), a trent’anni dal debutto dello spettacolo (che il Piccolo ripropone proprio in una celebrazione del trentennale del Troubleyn Theatre) ha perso molta della forza dirompente che nell’84 doveva apparire senz’altro più dirompente, come nei contemporanei lavori di Bob Wilson (cui Jan Fabre è stato accostato, specie per la geometrica precisione delle luci).
E stanca, nonostante il frequente impiego di ironia nel minimale sviluppo delle scene, che talvolta può ricordare il Kabuki (o se preferite la tortura cinese!), così come il citazionismo insistentemente post moderno (almeno tale a me è parso) di ripetere, sullo sfondo di dipinti famosi, sfibranti litanie di autori e opere teatrali fondamentali e rivoluzionarie, da Ibsen a Brecht, da Nono a Müller, da Isadora Duncan a Martha Graham e Merce Cunningham, da Trisha Brown a Twyla Tharp e così via e ancora e ancora per interminabili decine di minuti.
I suoi attori-danzatori-performer offrono sempre prestazioni fisiche di resistenza all’artaudiana crudeltà del perfido artista totale belga (che non a caso in passato collaborò anche con Marina Abramovic) veramente “postumane”: corrono sul posto per mezz’ora filata (mentre declamano titoli e date), vengono buttati giù dal palco e scacciati, spesso sono nudi, a volte bendati e minacciati da un coltello qui a sinistra)…
Ma purtroppo stavolta non si è replicata la magia che simili elementi avevano evocato in me alla visione di The Crying Body (all’Out Off nel 2004, cui si riferiscono le mie foto qui a destra): forse un’opera più recente e matura che, pur nel linguaggio sempre a-narrativo, rendeva più direttamente impattanti i nuclei (guerra, dolore, sesso, morte) in cui il corpo esprime le proprie emozioni più estreme attraverso secrezioni liquide, cui appunto si riferiva il titolo.
La Maratona Jan Fabre al Piccolo continua il 31 maggio e il 1 giugno con le 8 ore di This is Theatre like it was to be expected and foreseen, dell’82.
Ma stavolta senza di me. Io attendo di essere sfidato di nuovo da un Fabre proiettato verso il futuro.
Mario G
P.S.: le due foto di The Crying Body (in b/n) sono di Mario Gazzola. Le altre di The Power of Theatrical Madness (a colori) sono fornite dall'Ufficio Stampa del Piccolo Teatro o scaricate dal web. Posthuman ringrazia gli autori.