"Il bambino a una dimensione" intitolava Schulz, parodiando Marcuse, uno dei suoi storici libri su Charlie Brown. La geniale trovata mi è tornata in mente mentre leggevo Bitch, la nuova serie di brevi e graffianti strisce creata da Miguel Angel Martìn (di cui vedete la cover accanto all'occhiello e alcune pagine su questo pdf di 4MB).
Infatti l'espressione si attaglia benissimo ai protagonisti di queste strisce a colori acidi e piatti, come quelli dei graffiti metropolitani in cui s'impegnano i giovani squatter che la popolano, arroccati nel loro centro sociale Spray Can, perennemente minacciato dalle cariche di una minacciosa e repressiva polizia in costante assetto da guerriglia urbana.
Un mondo che Martìn deve conoscere molto bene, dal di dentro, visto che il disegnatore spagnolo è stato più volte a presentare i suoi lavori alla No Art Gallery di Jorge Vacca (anche editore dei suoi precedenti libri sub logo Topolin) e nei centri sociali di Milano Ticinese (Cox 18), spiega Marco Philopat nella sua competente postfazione al volume pubblicato in Italia da Purple Press .
Lo conosce e ne conosce anche le contraddizioni, che lascia filtrare nelle storie, con l'apparente nonchalance con cui affronta le cariche nelle manifestazioni, le violenze razziste e la perenne minaccia bellica che incombe su tutto: adolescenti snobisticamente vegetariane, che vantano passati drammatici di abusi e abbandoni familiari per celare le origine aristocratiche di cui si vergognano, studenti africani che "fanno i rivoluzionari" coi fondi europei destinati alla loro formazione, grandi confusioni ideologiche, ignoranza storica ("chi era 'sto Hitler?") e neonazisti dalle pulsioni gay.
Tutto questo e altro ancora ci squaderna Bitch con un'asciuttissima assenza di prese di posizioni morali nei confronti dei suoi disorientati personaggi e del vuoto pneumatico che li rende così come li vediamo: duri, freddi quanto ingenui, cinici e contraddittori, sempre di pochissime parole. "Andiamo", "usciamo", "spero non lo abbiano ucciso", "la tua famiglia è una merda. Come tutte.", "scappiamo", sono esempi dei loro monologhi.
Alla fine sono, Bitch, Blondi, Amin, Zebra e gli altri, credibilissimi "figli dell'era del silenzio", Sons of the Silent Age, cantata da Bowie nel lontano '77 del punk e oggi divenuta realtà, nel brusio stordente di media che intrattengono senza comunicare né informare più nessuno se non se stessi. Bambini a una dimensione.
Poi ho capito che la scelta grafica era funzionale alla medesima essenzialità narrativa delle situazioni e dei dialoghi della 'silent age'. Ora forse non me ne farò comunque dei poster in camera, ma la capisco e comincio ad apprezzarla nel suo contesto.
Philopat (autore di "Costretti a sanguinare" prima per Shake e poi Einaudi, guru del punk milanese) nella postfazione parla di "cut-up alla Burroughs, panorami catastrofici e suburbani che ricordano Ballard, episodi di misantropia acuta come in un romanzo di Céline, strappi allucinogeni che sembrano tributi spazio-temporali a qualche film di Cronenberg, le teorie della comunicazione di Alvin Toffler, o quelle sul caos di Cioran".
Ciò che spiazza, dunque, non è tanto questo immaginario - che ci è assai affine - quanto l'originalità di non renderlo col consueto corredo visuale tetro-notturno-piovoso che ormai istintivamente gli associamo di default, ma coi colori sgargianti della pubblicità televisiva demenziale in cui siamo immersi già oggi, nel nostro videodrome quotidiano, non nell'ipotetico domani non ben precisato in cui si svolge(rà?) la vicenda, che pur si fa fatica a definire "fantascientifico" nel senso stretto del termine... magari quasi fantasociologico, ma si tratta perlopiù di un presente leggermente calato sotto le spoglie di un immediato futuro.
Un futuro che dal presente che ahinoi conosciamo non differisce se non per il più avanzato stato di follia collettiva e di assenza di prospettiva storica in cui galleggiano i protagonisti.
Vicenda che si conclude in gloria con l'annuncio della imprecisata guerra che incombe come una minaccia latente per tutto il libro e sembra essere iniziata nel finale ("la prima fase dell'operazione Global Peace", annuncia neutra la radio). E questo - se mi è permessa l'autocitazione - è un leit motiv in cui mi trovo molto, essendo presente anche del mio imminente primo romanzo l'attesa della temuta "Quinta campagna irachena"... sarà lo spirito di questi confortanti tempi?
Buone vacanze cybernauti!
Mario G