Lo spettacolo al
Libero sulle 5 celebri serial killer donne funziona più come commedia che come affondo nel lato oscuro dell’animo femminile. Gran successo di pubblico, in scena fino a domenica 8 giugno.
Una giovane infermiera si sveglia di soprassalto, ossessionata da quattro fantasmi. Sono quattro celebri donne-serial killer storicamente esistite: la “Contessa Sanguinaria” Erzsebet Bathory (
Monica Faggiani, sotto a destra), efferata Sade in gonnella del ‘600, la “Saponificatrice di Correggio” Leonarda Cianciulli (
Silvia Soncini, seconda foto sotto a sinistra), assassina di tre amiche, sacrificate al Maligno perché risparmiasse i suoi ultimi quattro figli (unici vivi di 17 partoriti dalla donna), la “Vedova Nera” Belle Gunness (
Elena Ferrari, terza sotto a sinistra), killer di aspiranti mariti spennati e decapitati, la “Cagna di Buchenwald” Ilse Koch (
Paola Giacometti, sotto a destra con svastica e fucile), torturatrice nazista.
Grazie al loro ironico dialogo con la terrorizzata ragazza, apprendiamo che anche quest’ultima non è proprio una santa: trattasi infatti dell'Angelo della Morte S.C. (
Chiara Anicito, l'ultima in basso a sinistra con la siringa), la più recente del gruppo, infermiera assassina di pazienti attraverso iniezioni d’aria in vena.
Golosa idea: finalmente il pulp approda anche a teatro! Ahi ahi, fino a un certo punto: chi (come noi) andrà a vedere lo spettacolo al
Teatro Libero credendo di imbarcarsi
“alla ricerca delle origini di ciascun delitto nelle coincidenze tra evoluzione psicologica e fatalità del destino, cercando di confrontarsi con l'’incomprensibile’ che si cela dietro ogni omicidio” (così la presentazione del lavoro), resterà deluso dall’assenza di qualsiasi reale analisi del
“lato oscuro dell'animo femminile”. Subito dopo questo inizio, infatti, la drammaturgia (di
Tobia Rossi) si distacca dalle storie delle truci assassine attraverso il (non originalissimo) espediente meta teatrale dello spettacolo nello spettacolo: le cinque donne sono attrici che stanno provando un lavoro diretto dal misterioso regista Leo, che sembra essersi dato alla macchia, non prima d’aver sedotto almeno un paio di loro.
Ecco che dunque – nelle intenzioni dell’autore e del regista (
Manuel Renga, non sappiamo se a sua volta amante e di quanta parte del cast) – la quotidianità tra l’allegro e l’isterico delle attrici si dovrebbe fondere con le biografie dei rispettivi personaggi – evocati attraverso degli a solo che dovrebbero rappresentare i momenti drammatici dello spettacolo – ossia le storiche sanguinarie.
Senonché gelosie professionali e sentimentali, bisticci e qualche sberla vanno ben lungi dal far temere a noi spettatori che davvero si verifichi un transfert fra le nevrotiche donne di scena e i loro micidiali alter ego (ma nemmeno affondano la lama in quei desideri indicibili che assai più efficacemente vivisezionava
Per Uomini Soli sul versante maschile).
E un finale tinto di giallo non basta a riequilibrare i bracci di una bilancia che pende inesorabilmente verso il registro della (per quanto
black)
comedy, a base di battute e provocazioni fra le cinque, basate sugli eterni cliché delle rivalità al femminile. Alla fine, risulta molto più efficace il ritmo della pochade rispetto alla rievocazione delle tragiche storie che danno titolo, tema e immagini allo spettacolo. Le quali, in assenza di qualsiasi approfondimento, rischiano di sembrare solo delle lungaggini inutili rispetto a ciò che davvero conta: per l’appunto, divertimento e gag comica.
Nondimeno, il pubblico milanese (abitualmente considerato freddino) che ha gremito la sala del Libero nelle prime due recite della breve tenitura ha gradito, e molto: risate e addirittura applausi a scena aperta hanno sottolineato il plauso per un impianto che in fondo strizza leggermente l’occhio al varietà televisivo. Ma, si sa, un milanese è anzitutto un italiano. E l’italiano, anche se appartiene all’élite che va anche a teatro, diseducato da 30 anni di tv commerciali, se c’è da ridere è contento e non fa fisime.
Chi si contenta, goda. Ma sappia che
L’Istruttoria di
Peter Weiss,
La Contessa Sanguinaria di
Valentine Penrose (e la sua rielaborazione poetica di
Alejandra Pizarnik), come anche l’onesto Grand Guignol (o gli affilati dialoghi ironici del suo epigono
Tarantino) e le efferatezze metal dei
Bathory (nomen omen) stanno molto lontani da qui.
Mario G