"I'd be safe and warm (I'd be safe and warm)
If I was in L.A. (if I was in L.A.)"
(California Dreaming)
Rob Zombie non è uno che va per il sottile, si sa. Ci ha provato una volta (con l’ottimo Le Streghe di Salem, film corredato anche da omonimo libro) e gli è andata male: a quanto pare, il suo horror più raffinato e sperimentalmente lynchiano ha incassato pochissimo anche in USA, dove un horror facile può fare il vero big money. Ma se non lo fa, Hollywood non perdona, peggio di Michael Myers: anche se prima t’ha affidato ben due film del franchise post-carpenteriano, i produttori ti mollano come un appestato e per tornare dietro la cinepresa ti trovi a raccogliere briciole col crowd funding.
Questa, come si sa, la storia produttiva di 31, da noi passato in sala solo una sera nei lunedì horror di Midnight Factory e ora disponibile in home video per la medesima etichetta, anche in lussuosa limited edition. Film girato con pochi mezzi, su cui già Manlio Gomarasca di Nocturno aveva osservato che – forse proprio per l’esiguità del budget – il regista metallaro si accanisce con combattimenti fra i guitti braccati e i killer spediti ad ucciderli talmente frenetici, tra camera a mano, zoomate e schizzi di sangue, che spesso si perde persino la cognizione di cosa accade.
Il che secondo me non è poi così grave: ho sempre pensato che in una lotta perlopiù non si mette a fuoco granché di quel che accade davvero e, quando l’azione si placa, chi è rimasto in piedi lo capiamo per forza. Non è grave perché in fondo 31 è anche un film ben girato: Rob è tornato prudentemente alle origini, offrendo ai fan che l’han finanziato praticamente un remake della Casa dei 1000 Corpi, quindi di Non Aprite Quella Porta, dalla trama così esile che ve l’ho già raccontata senza farlo. Un gruppo di scalcinati circensi itineranti (ambiente che il regista ben conosce dall'infanzia) gira per il Texas in furgone. Quasi subito vengono aggrediti, sequestrati e piazzati in una misteriosa casa degli orrori, in cui dovranno lottare per sopravvivere ai massacratori votati a farli a pezzi, per la gioia di un manipolo di ricconi vestiti come nobili del ‘700, guidati da l’anziano Malcolm McDowell (che vedete nelle foto qui sopra ai lati, anche con le sue ancelle discinte), i quali scommettono amenamente sulle loro chance di farcela a restar vivi per un arco di 12 ore.
L’abilità del regista sta nel farci a più riprese rimangiare l’irritazione di trovarci davanti alla miliardesima, tamarra riproposizione di un canovaccio che sappiamo a memoria con la sua sapiente, astuta (acc, stavo quasi per scrivere “colta”) cinefilia (cui ci siamo allineati col calembour del titolo sul thriller di Frankenheimer), per cui nella sua interpretazione del canovaccio mette insieme il torture porn degli Hostel e la vena politica del secondo Notte del Giudizio (le scommesse), dei Saw (l’edificio-trappola), ma anche I Guerrieri della Notte di Hill (la corsa contro il tempo, ogni tappa uno scontro, l’abbondanza di mazze da baseball come armi, lo stilizzato look dei cacciatori), il Funhouse di Tobe Hooper (i clown assassini). Ma anche il lussureggiante kitsch delle messe in scena degli ambienti dei successivi combattimenti, che sembra una mostra celebrativa di blasfemia camp tra De La Iglesia e un video di heavy metal alla Marilyn Manson (o Rob Zombie, ça va sans dire!), con un nano nazista chicano (sotto), un gigante vestito da donna accompagnato da una lolita sfiorita e… l’ultimo killer, il più letale ovviamente, detto Doom-Head e agghindato come un Peter Murphy-era Bauhaus (sopra a sinistra) col sangue alla bocca: un superlativo Richard Brake (già nel 2° Halloween zombesco, lo vedete sopra a destra) dalla gag filosofica sempre in bocca.
Certo, sullo schermo passano anche brevi attimi del Nosferatu di Murnau per il cinefilo doc, ma lo Zombie ha ben chiaro l’obiettivo di far capire ai fan americani che lui è sempre e ancora lui: quindi nei dialoghi ci mitraglia con un numero di “fuck” che credo superi largamente tutte le altre parole di copione messe insieme e ci violenta il nervo ottico con neon intermittenti, fermi immagine, scatti furiosi e split screen orizzontali, finti super 8 graffiati e seppiati accanto a sequenze dai colori ipersaturi e cascate di rosso che al confronto Suspiria è un “riposa-vista”; dando vita al lungo video clip psichedelico-metal che i nostalgici dei suoi primi due film sulla famigliola Firefly sognavano.
Un clippone ovviamente zeppo di cultura rock (e musica country d’epoca d’ambientazione) ben disseminata lungo tutta la storia: dalla scritta “The show must go on” sul fronte del furgone dei guitti (un’altra tipica comune hippy sboccata in cui Jeff Daniel Phillips (a destra con Sheri Moon e Meg Foster già uccisa e crocifissa e sotto con motosega d'ordinanza) è un vero sosia del cantante-regista), dai brani di Lynyrd Skynyrd e Mamas & Papas in colonna sonora (“Oddìo, adoravo quella canzone”, sospira Sheri Moon sentendo echeggiare California Dreaming al colmo dell’incubo), alla struggente Dream On dello Steven Tyler solista, alle registrazioni dello storico dj americano horror-rock’n’roll Wolfman Jack, insieme al Concerto per piano N. 5 di Beethoven e alle musiche composte ovviamente dal regista insieme al fido chitarrista John 5.
E, in conclusione, com’è ‘sto film? “Non è un capolavoro immortale, certo, ma si fa vedere perché ha un buon ritmo, nessuna presunzione di significare più di ciò che è e riesce anche a spiazzare con un finale aperto inatteso” da Duello al Sole (che è la vera sorpresa del film dato che, con Sheri Moon nel cast, non c’è neanche il dubbio di chi resterà in piedi alla fine della mattanza!). La risposta, diretta e onesta, viene da un esperto di serial killer: Claudio Chiaverotti, papà del bonelliano Morgan Lost, che di assassini a catena è appunto un cacciatore, col quale abbiamo parlato del suo personaggio per il saggio su rock e fantascienza in fase di scrittura. “…E alla fine Rob Zombie è uno che ci sta simpatico, no?”.
Mario G