Strictly for fans.
Fine della recensione, ad esser generosi.
Siccome non lo siamo, affonderemo il coltello nella piaga: se non siete hardcore fan nostalgici dell'era del Britpop (all'anteprima stampa ce n'erano e va detto che loro erano entusiasti) - Blur: To the end (titolo preso da un singolo del '94 su Parklife, locandina qui a destra), che Adler distribuisce nelle sale italiane nel giorni 24-26 febbraio, è il più brutto live movie visto sinora nella lunga vita del Vostro sul pianeta rock, oltre che in generale il film più noioso subìto da almeno un anno a questa parte.
Semplicemente perché il concerto al centro della faccenda NON c'è, se non nell'ultimo quarto d'ora degli sfiancanti 104 minuti di durata della pellicola.
In pratica, il film segue la preparazione del trionfale reunion tour del quartetto britannico del 2023, seguito alla pubblicazione del nono album The Ballad of Darren dopo 8 anni circa di carriere soliste, a partire da un ritorno alla storica scuola di musica che temprò i futuri Blur, dove oggi un'aula è dedicata ad Albarn & Coxon, seguito da un concerto 'test' al Colchester Arts Centre, fino alle due serate al Wembley Stadium di Londra davanti a 150.000 spettatori adoranti.
Un documentario onesto e assolutamente antidivistico, che ci presenta quattro musicisti ultracinquantenni, in abiti dimessi con visibili pancette, famiglie e vite/carriere individuali ormai lontane da quella vita di gruppo che li unì da ragazzi; che non si sono frequentati per anni e non sono nemmeno sicuri di ritrovare quella chimica che fece della loro band una leggenda ormai trent'anni or sono. Coraggioso, e la ritroveranno?
A colpi di abbracci, birre, viaggi in pullmino, saune insieme, qualche piccolo incidente a una gamba per il batterista Dave Rowntree e... chiacchiere, tante, soporifere chiacchiere di cazzeggio tra il goliardico e quella che Damon Albarn deve ritenere filosofia esistenziale, che ci bofonchia in voice over sulle noiosissime immagini di loro quattro che si trovano, mangiano, fanno il bagno nel poco invitante mare inglese, bevono... e ci spingono a chiederci: ma a noi cosa ce ne dovrebbe fregare dei loro dubbi sul destino di una band che fu famosa e ora non si sa se abbia ancora senso di riunirsi? Sei famoso perché suoni roba che alla gente è piaciuta, e allora zitto e suona, no?
Noi adesso siamo felici di sapere che anche per loro la Brexit è stata una gran cazzata e che la situazione politico sociale sta vistosamente degenerando anche nel Regno Unito distaccato, ma alla fine la filosofia spetta ad altri.Ci conforta anche che la cantante nera dei Selecter - support act delle due mega serate a Wembley con l'ottimo Paul Weller, Jockstrap, Sleaford Mods e Self Esteem - sia preoccupata come noi che il "Trump world" stia rivitalizzando quegli atteggiamenti razzisti e sessisti che la sua generazione (quella del punk-ska-wave) s'illudeva d'aver sconfitto nei suoi anni selvaggi (qui si torna indietro al 1977/79). Purtroppo anche i supporter non li vediamo che per un lampo (a lato Albarn che si spinge ad ascoltarli a lato del palco).
Striscia allora il sospetto che, in tanto understatement, i Blur abbiano pensato in un'impennata di Brit-spocchia che per 11-13 euro circa di biglietto al cinema non valga la pena concedere più di un quarto d'ora di canzoni (incomplete e spesso sormontate dai pensosi monologhi del cantante), per non sprecare un concerto intero, che invece si paga almeno dieci volte tanto (per aiutare i poveri sempre più tartassati dai ricchi oggidì, i biglietti di Wembley andavano dale 78 alle 147 sterline).
Beninteso, con ciò nessuno nega che l'Albarn sia una delle belle menti uscite dalla musica inglese dei '90, che ha saputo evolversi oltre il Britpop che l'aveva lanciato, prima coi Gorillaz, poi con l'incredibile colonna sonora per L'Insaziabile/Ravenous di Antonia Bird, a quattro mani con Michael Nyman, poi con supergruppi come The Good, the Bad & the Queen e collaborazioni etno sempre imprevedibili, infine come cantautore solista (ascoltate il raffinato The Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows del 2021), in bilico fra le pensose atmosfere di un Cave maturo e l'elettronica delicata di un Eno con Cale.
Purtroppo, la regia del (forse troppo) fan Toby L. (già autore del documentario Liam Gallagher - Knebworth 22), lungi dall'incalzante ritmo del Demme di Stop Making Sense, ripassato al cinema di recente, dall'infuocata testimonianza sul furore dei Birthday Party di Mutiny in Heaven diretto da Ian White e prodotto da Wenders, e persino dal più partecipato Jesus loves the Fools passato a Germi alla presenza di Joe e Manuel, pionieri della scena indie milanese (i Carnival of Fools sono un po' i Birthday Party nostrani, sotto vi proponiamo il trailer che immaginiamo il meno noto fra i citati), alla fine ci fa gridare - fuori dai miei miti riconosciuti per non apparir di parte - "aridàtece Rattle and Hum", che almeno era un signor rock movie quando i Blur portavano le braghe corte.
"Ho cantato dall'inizio alla fine", ha giubilato uno dei colleghi entusiasti al termine della proiezione in anteprima.
De gustibus, si sa, ma poi il sottoscritto si chiedeva: e le canzoni dove le sentivi, su Spotify?
Mario G.