"I don't care much about music. What I like is sounds"
(Dizzie Gillespie, cit. dal cd Codice Ego/Meraki)
Il primo temporale tropicale ha squarciato la canicola agostana abbassando il termometro e spargendo profumo d’umido sull’asfalto della metropoli. Oh, non che fino a ieri fossimo lì a ballare "Un movimiento sexy" con “Una mano en la cabeza, Una mano en la cintura”, ma magari questo è il momento giusto per segnalarvi un bel quartetto di dischi che – a scanso d’equivoci – colla sciocchineria tipicamente associata ai tempi vacanzieri non potrebbero c’entrare di meno.
Cosa li unisce? Per esser chiari, una beatissima mazza: a parte l’alienità dall’idiozia delle animazioni balneari di cui sopra non potrebbero essere più diversi l’un dall’altro. E perché li riuniamo qui allora? Puramente per comodità e contemporaneità di uscita sul mercato della musica cosiddetta alternativa.
Oddìo, in realtà due di loro pescano – anche se in maniera diversa – nello stesso calderone: quello (grazie a dio inesauribile) della psichedelia. Sono l’ultimo album dei Gong e l’ultimo dei Flaming Lips, comunque molto differenti nonostante le radici comuni.
Gong – The Universe Also Collapses
Il primo album della storica comune di Daevid Allen totalmente privo di alcun contributo del geniale leader, ormai volato fra le sue teiere cosmiche dal 2015, interamente concepito, eseguito e prodotto dai suoi sodali dell’ultim’ora (foto a destra): Ian East (fiati), Fabio Golfetti (chitarre/canto), Cheb Nettles (batteria/tastiere/canto), Dave Stuart (basso/synt/canto) e Kavus Torabi (canto/chitarre), riesce nel miracolo di suonare al 100% come un album dei Gong più storici.
Solo 4 brani per circa 42’ di musica, dove il primo passa i 20 e il terzo i 13, The Universe Also Collapses a dispetto del titolo vola alto nel cosmo di uno space rock autenticamente anni ’70, con furiose, entusiasmanti incursioni di fiati jazz rock. “Volevamo fare quello che per noi sarebbe stato il disco di rock psichedelico definitivo”, lo presenta Torabi, e quello vi troverete dentro, se è psichedelia che andate cercando. Non sappiamo se, come il suo guru lisergico Timothy Leary, fosse questo il Design for Dying di Allen. Ma di certo eternarsi in una band che continua a vivere e a portare avanti il tuo segno anche dopo la tua morte fisica è un bellissimo “last trip”.
Da ascoltare, senza preconcetti e con tripudio spaziale.
The Flaming Lips – King’s Mouth / Music and Songs
Il 15° album di inediti del bizzarro Wayne Coyne colla sua ghenga di mattacchioni fiammeggianti condivide coi Gong i solari colori di copertina (che campeggia in apertura), là il rosso, qua il giallo (a sinistra) e i colori pastello dei disegni del leader, autore del romanzo e dell’installazione (foto a destra) di cui il concept album è l’emanazione sonora.
Ma alle lunghe divagazioni strumentali oppone 12 brani mediamente brevi (41’18” in totale), per declinare le fasi di una sorta di fiaba fantasy-simbolica su un gigantesco re-bambino che s’immola per salvare il proprio popolo da una valanga e la cui testa verrà adorata come una reliquia. L’album, impreziosito dai recitativi di Mick Jones dei Clash, che consentirebbe d’inserire l’album nel nostro servizio Prog-wave 2, dal punto di vista sonoro prosegue il corso recente dei Flaming Lips: estatico cantato in falsetto del leader su melodie pop sergeantpepperiane (capolavoro peraltro coverizzato in toto dai FL con ospiti) dell’era dei sintetizzatori: se ben ricordo, del precedente Oczy Mlody Coyne diceva essere nato dal suo sperimentare su certi vecchi synt analogici di Sean Lennon, talvolta con le aperture orchestrali cui le Labbra Fiammeggianti ci hanno abituato sin dai tempi di Yoshimi.
Da avere per ogni buon Lips fan (e noi lo siamo), anche se non innova particolarmente rispetto alle aspettative di pop onirico-disneyano fantasiosamente, talvolta anche baroccamente – anche se ormai di rado sorprendentemente – prodotto.
Se vi manca la follia più rumorosa e anarchica dei primi Flaming Lips, attenti a quel che chiedete: potrebbe esservi servito sulla punta della forchetta un pasto (nudo) di asperità sonore veramente da delirio burroughsiano: i newyorkesi Will Greene (chitarra), Simon Hanes (basso) e Aaron Edgcomb (batteria) sono stati invitati – apprendiamo – a formare un gruppo nientemeno che da John Zorn. Accontentatolo, i tre pensano bene di superarlo a sinistra con questo Pull, pubblicato dalla portoghese Clean Feed, etichetta dedita al jazz più concettuale dei Braxton, Berne etc.: 40’41” per soli tre brani strumentali che vanno oltre le più ardite frontiere del free per spingersi nel più puro noise quasi industriale, tra Metal Machine Music (a destra la storica copertina), i dischi dei Sonic Youth con Jim O’Rourke su SYR e l’ingiustamente disprezzato Zero Tolerance for Silence di Pat Metheny.
Nessun punto di riferimento, nessuna coordinata sonora per non sprofondare nella pura follia dadaista senza regole, concepito – dicono le note dell’etichetta – “come un rituale catartico”.
Cui accedere a proprio rischio e pericolo. Se volete accostarlo a una forma di psichedelia deviata, il riferimento più prossimo è Psychedelic Underground degli Amon Düül.
Cosa c’entra il debutto discografico di Dario Pelizzari e Ivan Principato (Epictronic/Goodfellas) con così diverse rifrazioni del concetto di psichedelia, se il duo torinese lavora essenzialmente di pura elettronica, col cuore rivolto alle atmosfere rilassate e mentali di David Sylvian, Mick Karn, dei Talk Talk più dilatati e ambient e dei Massive Attack? Poco, nonostante i due citino fra le proprie influenze anche Pink Floyd e Porcupine Tree: se profondità siderali si possono intravedere nella loro miscela sonora, secondo noi passano assai più per i minimalismi kosmische dei Cluster/Roedelius/Neu (e magari per qualche vibrato alla X-Files in Forelsket). Un altro viaggio interamente strumentale (solo Lucia Mastrorosa dà voce al brano Dalì), in cui qualche dilatazione psichedelica arriva dalla chitarra elettrica di Nino Azzarà (su Ego e Jeanne) e, concettualmente, dall’originale ricorso a registrazioni delle voce di Bukowski (in Charles) e di Dalì nel succitato brano dedicato al grande surrealista spagnolo, come tappe di un ideale “viaggio nel grande romanzo in evoluzione della cultura occidentale”, o nelle liquide stratificazioni di ammalianti immagini cinematografiche in b/n del video della suadente Duende, che si chiude con un “to be continued” che a sua volta sa di un viaggio visivo appena iniziato.
Autori anche di una stringata e originale cover di Oxygene di Jean-Michel Jarre, inedita su disco ma che vorremmo inserire nel tribolato "FantaRock cover album", i Codice Ego sono una possibile colonna sonora per un On The Road in cui invece che “sulla vecchia Pontiac del ’55 del babbo di Dean” (Guccini) si viaggia sulla futuristica auto di Trans di Neil Young (foto a destra).
L’estate sta finendo… ora non ci resta che aspettare la Summer of Love del nuovo Paul Roland, ancora su etichetta piacentina Dark Companion!
Mario G