“Con la nebbia non sapranno che siamo così pochi: useremo la vecchia tattica.
Al galoppo!”
(Artù alla battaglia finale, da Excalibur di J. Boorman)
L'arrogante regista pubblicitario Toby (Adam Driver, uno spigoloso Johnny Depp giovane qui a sinistra) è in crisi d'ispirazione sul set di uno spot ispirato a Don Chisciotte. Da un venditore gitano scopre un dvd del suo primo film indipendente, girato dieci anni addietro e sempre ispirato al crepuscolare eroe di Cervantes.
Nella speranza di ritrovare lo spirito e l'entusiasmo d'allora si reca al villaggio di Los Sueňos (in realtà Gallipienzo in Navarra) dove l'aveva girato, solo per scoprire che nel rurale paesino il suo passaggio ha avuto l'effetto di un'invasione degli unni: potenza del cinema, il ciabattino da lui scelto per interpretare l'idealista cavalier errante (Jonathan Pryce, già con Gilliam in Brazil, Münchausen e i Grimm), dopo l'esperienza del set s'è convinto d'essere davvero Don Chisciotte e vive in armatura menando fendenti colla spada a destra e a manca; mentre la graziosa figlia del barista che lui aveva eletto Angelica (la minuta e sensuale Joana Ribeiro nella foto qui a destra), convincendola d'avere la stoffa della star, gli ha creduto ed è andata a Madrid diventando una escort di lusso.
A questo punto Toby si trova prigioniero dell'"effetto cinema" da lui stesso innescato: nei panni mal tollerati di un Sancho Panza raziocinante segue il suo folle Don Chisciotte nelle deliranti avventure da cui tenta invano di riscuoterlo prima che si faccia male per davvero. È la parte del film più ricca di situazioni comiche e che a mio parere soffre di qualche ridondanza (cosa peraltro non rara in Gilliam).
Però prepara il terreno per l'affondo simbolico del grande regista: col folle cavaliere, lo stranito regista finisce in un sontuoso castello (il Convento di Cristo a Tomar in Portogallo, foto dal set a destra), in cui ritrova tutti i personaggi della sua vita reale calati nella finzione e nei costumi secenteschi del trip cavalleresco del suo Don: il boss dell'agenzia pubblicitaria per cui lavora (Stellan Skarsgård) intento a conquistare come cliente della prossima campagna pubblicitaria il volgare magnate russo della vodka Alexei (Jordi Mollà), la bionda sventola Jacqui (Olga Kurylenko), la "moglie del boss", come si definisce lei stessa, con cui come da cliché lui flirta senza trasporto, persino il venditore gitano onnipresente.
Tutti meschini figuranti di un grottesco e sguaiato carnevale donchisciottesco di cui il sognante cavaliere e il riluttante scudiero vengono eletti a giullari, ma che infine vale a far scattare il riscatto morale del protagonista: Toby si lancerà al salvataggio dell'amata Angelica, comprata e vilipesa dal rozzo magnate. Ed è questa parte finale invece la più visionaria ma anche commovente della pellicola, perché - nel tentativo di salvarla da un rogo sacrificale - proprio Toby diventerà "l'uomo che uccise Don Chisciotte" del titolo. Ma ormai il suo cammino iniziatico è completo: ora è lui il nuovo cavaliere errante, difensore dei deboli e delle damigelle, che vede mostruosi giganti nei mulini a vento e soprattutto è pronto a lottare per valori che il mondo intorno a lui deriderà senza capire.
Però, come dice Quixote-Gilliam in chiusura, "vivrà per sempre": ce l'ha dimostrato lui per primo, continuando a credere ostinatamente nel suo progetto per trent'anni, da quando lo concepì nel 1989 dopo il successo de Le avventure del barone di Münchausen, lungo una sfilza di ostacoli, sfortune e disastri produttivi degna essa stessa di un film catastrofico (e infatti immortalata dal documentario Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe del 2002), quindi attraverso un'estenuante serie di revisioni della sceneggiatura ("in media abbiamo riscritto la sceneggiatura due volte l'anno, forse anche di più, a seconda della possibilità che il film entrasse di nuovo in produzione", ricorda lo sceneggiatore Tony Grisoni), dal 2009 fino a questa versione finale ambientata nel presente, che ha reso finalmente realizzabile l'ambizioso progetto di Gilliam. Un monito per noi scrittorucoli che osiamo lagnarci per due o tre anni di traversie editoriali di un romanzo!
All'anteprima per la stampa, la scritta "after 30 years of making... and unmaking" nei titoli di testa ha strappato l'applauso anche al cinico parterre giornalistico.
Più riuscito del precedente The Zero Theorem, L' uomo che uccise Don Chisciotte è ricco di quelle immagini barocche, felliniane, grottesche, coloratissime, fiabesche e oniriche che ormai ci si attende come una griffe dal suo strabordante autore, e che in parte non possono non richiamarci alla mente quelle di un altro sognatore barocco come Jodorowsky. Esce nelle sale italiane il 27 settembre distribuito a M2 Pictures ed è la migliore dimostrazione di un altro teorema: quello secondo cui un autore sostanzialmente dice, rielabora e affini fondamentalmente un'idea, La Sua Idea, lungo tutta la sua carriera. Quella dell'ex Monty Python, da Tideland a Parnassus allo stesso The Zero Theorem, è il potere del sogno, baluardo contro lo squallore della vita quotidiana, della potenza dello spettacolo (il cinema di Toby, il teatrino di Parnassus) come propulsore del sogno (non a caso una delle società produttrici del film si chiama Ukbar Filmes, come il racconto di Borges su un Paese immaginario); e quindi la necessità morale di combattere per i propri ideali, anche a costo di titaniche sconfitte.
Ecco perché la citazione da Excalibur in apertura: perché Terry è l'Artù di tutti noi cavalieri erranti, che continuiamo ad "attaccare nella nebbia" sperando che il nemico non si accorga che combattiamo da soli.
E, come il suo Don Quixote, vivrà per sempre.
Mario G