È già nelle sale italiane distribuito da Koch Media/Midnight factory The Devil’s Candy, secondo lungometraggio – ma debutto su scala hollywoodiana – dell’australiano Sean Byrne, già molto lodato per The Loved Ones, che qui firma un curioso mix di originalità e salda mano registica, con valide interpretazioni attoriali, insieme a superficialità e cliché piuttosto ricorrenti dell’horror di possessione (con cui peraltro poco c'entra la peregrina tagline italiana, che sembra alludere più al filone catene di Sant'Antonio alla The Ring).
Come si evince già dalla trama: Jesse – pittore fricchettone e metallaro – si trasferisce con la moglie e la figlia liceale (metallara come il padre) nella villa-studio dei suoi sogni, per terminare i propri ultimi dipinti in cui, per rendersi un po’ più “accettabile” agli occhi della committenza bancaria, si è “abbassato” a dipingere un volo di colorate farfalle invece delle consuete cupe visioni espressioniste. Ma subito s’intuisce che qualcosa in quella casa non va (e questo è già un primo cliché: dove in passato sono morte delle persone non può essere magione di letizia).
La casa, oltre che dei sogni di Jess, è infatti anche quella degli incubi di Ray (a sinistra), il superlativo caratterista Pruitt Taylor Vince (che molti ricorderanno trombettista nella Leggenda del Pianista sull’Oceano di Tornatore/Baricco, ma vanta una filmografia ricchissima che spazia da Angel Heart a Cuore Selvaggio, Mississippi Burning, Natural Born Killers, fino a The End Of Violence di Wenders e al sottovalutato Allucinazione Perversa di Lyne, Constantine ed L.A. Confidential, episodi di X-Files, CSI e The Walking Dead). Il quale Ray, si diceva, vent’anni prima proprio in quella casa aveva massacrato i genitori finendo in ospedale psichiatrico.
Ma ora che vive (inspiegabilmente) libero non sta mica tanto meglio: sente voci demoniache nella testa e cerca di farle tacere schitarrando furiosamente su una bellissima Gibson rossa degna dei Metallica (ancora a sinistra, come la mano del diavolo). Quando il rumore disturba il prossimo e gli impongono di smettere, lui non ce la fa più a resistere al richiamo dell’Oscuro Signore e cede a sacrificargli qualche bambino ghermito nei dintorni (sono loro le “caramelle del diavolo” del titolo). Il regista, con apprezzabile ellissi, ci risparmia la macelleria ma ce la lascia intuire dai preparativi e dalle susseguenti pulizie del sangue versato (con sagace citazione hitchcockiana da Psycho).
Se la casa maledetta è un cliché, Sean Byrne è però anche abile ad evitarne le secche più ovvie (scenette di banalità domestica spezzate cigolii, porte che sbattono etc.) e andando dritto al sodo: l’artista Jess, come un’antenna, capta in qualche modo le vibrazioni malvagie e – dipingendo furiosamente in trance – trasferisce sulla tela al posto delle farfalle angosciose metafore (foto in alto a destra) dei crimini perpetrati (all’insaputa di tutti) proprio da quel bizzarro vicino, che reclama di “tornare a casa sua” anche a costo di donare alla figlia del pittore l’ambìta chitarra. E ormai lo sanno anche i sassi che chi schitarra metallo richiama Satana, no?!
Purtroppo però qui il regista perde l’occasione di collegare il metal che unisce i tre personaggi centrali del suo film alla possessione diabolica (come meglio aveva fatto Rob Zombie colle sue Streghe di Salem) e così il molto noise siderurgico che offre la sua colonna sonora (in cui i Sunn O))) forniscono le divagazioni soliste di Ray ma insieme a loro compaiono anche i citati Metallica, Slayer, Ghost, Machine Head, PJ Harvey e parecchie altre star del rock duro) rimane un segno non ben contestualizzato.
Un po’ meglio articolato è il rapporto con l’arte: quando la visita di un importante critico che mostra d’apprezzare la sua svolta “inquietante” rischia di farlo tardare a riprendere la figlia Zooey, che esce sola dalla nuova scuola, Jess s’affretta, inseguito dal monito profetico dell’esperto: “Non si otterranno mai grandi risultati senza sacrificare qualcosa”. Peccato solo che l’idea (che, si parva licet, sottende anche il mio secondo romanzo tuttora inedito) non venga approfondita nella direzione della maledizione insita nel furore dell’artista stesso, ma rimanga solo una forma di sensibilità ad un Male che comunque è esterno all’atto creativo e caratterizzato piuttosto classicamente attraverso documentari televisivi sulla Chiesa e il Maligno e una visione di capro davanti alla finestra.
Il pittore dunque corre come un folle ma una gomma forata lo farà arrivare ugualmente in ritardo. Immaginate quale sacrificio si sta già apparecchiando per lui? Forse allora è un altro cliché del film, benché pure qui Byrne abbia idee di messa in scena originali (prontamente accolte da stolide risate del pubblico di bifolchi da drive-in intorno a me in sala): io invece ho trovato molto apprezzabile che né il posseduto né il padre-difensore (e nemmeno sua moglie Astrid) vengano presentati nelle scene più d’azione del film come dei killer-ninja, capaci di trasformare qualunque oggetto quotidiano in arma mortale e delle ormai immancabili acrobazie letali. No, qui i personaggi restano un disturbato mentale, che anche con una pistola in mano sparacchia a casaccio sbagliando platealmente mira, e un uomo comune, che anche con in mano una mazza da baseball si spaventa e si perde stupidamente l’effetto sorpresa.
Il fiammeggiante finale (a sinistra) ve lo lascio scoprire da soli, anche se a mio parere non è il punto forte del film: che risiede se mai, come dicevo all’inizio, nella scelta di protagonisti un po’ hippy e non “famigliola media americana”, nella rinuncia all’ipertrofia action tipica dell’horror medio hollywoodiano e in convincenti interpretazioni, su cui appunto svetta quella del navigato Pruitt, qui pelato, ingrassato e ingoffito, ma abilissimo a far dardeggiare un lampo luciferino anche dagli sguardi del tonto (e senza più roteare le pupille vorticosamente come m’aveva colpito nel film di Tornatore).
Insomma, Byrne confeziona una pellicola svelta (i classici 90’ senza strafare), col pregio di risparmiarci gli spiegoni telefonati ma che paga lo scotto di non approfondire nessuno dei temi pur succosi che lambisce; che si fa vedere con piacere situandosi al di sopra della media del prodotto hollywoodiano contemporaneo, anche se non abbastanza da incoronare già una nuova Grande Firma dell’horror mondiale.
E ci lascia ancora una volta in sospeso sull’angoscioso dilemma: ma ‘sto metal porta davvero all’inferno o ce ne salva?
A voi l’ardua.
Mario G