Nan Goldin (nelle foto a destra e sotto a sinistra) è la fotografa americana divenuta famosa nel mondo nel 1986 con The Ballad of Sexual Dependency, la sua raccolta di foto più famosa (dal titolo brechtiano): uno spaccato di vita on the wild side, un po' alla Lou Reed, e contemporaneamente una sorta di affresco della variopinta e stracciata community di artisti, fricchettoni, gay e tossici che era all'epoca la sua 'famiglia allargata'.
Famiglia che la giovane Nan ritrasse, impassibile e non-giudicante, con tecnica spoglia e le luci giallastre della foto ricordo appunto dell'album di famiglia, nei momenti anche più intimi e delicati: travestiti al trucco, coppie durante il sesso, il buco nel braccio, il sangue schizzato, le tenerezze fra omosessuali, ma anche la famiglia, i bambini o l'invecchiamento. E le botte ricevute dal fidanzato Brian. E i malati di AIDS in ospedale. Perché l'opera della Goldin è esplosa quando la sua pittoresca famiglia è stata falcidiata dal virus e quindi la sua gallery è diventata una sorta di antologia di Spoon River di un mondo, un edonismo, una trasgressione forse al crepuscolo.
Francesco Bressan e Marina Romondia (a lato la foto di scena adottata come poster dello spettacolo) hanno scritto, autodiretto e interpretato IDONTWANNAFORGET, la loro rievocazione della sua vita e dell'opera così intrinsecamente ad essa legata evitando accuratamente - va loro riconosciuto - di ravanare nel torbido morboso del sex'n'drugs & rock'n'roll, che sarebbe stato tanto facile, puntando invece a riannodare un più sottile filo della memoria: quella della fotografa, di cui rievocano il suicidio della sorella maggiore (di cui io non sapevo), motore della compulsione a fermare l'attimo quotidiano; con quello personale, con i due attori ad impersonare se stessi in scena, in mezzo al'essenziale scenografia di scatoloni di cartone da trasloco (che con proiettate sopra le diapositive della Goldin in qualche attimo sembrano una skyline di grattacieli newyorkesi) e valanghe di foto da spostare, rivangare, lanciar per aria, calpestare.
Emerge una riflessione affilata e profonda: nella celebre foto coi lividi prodotti dalle botte del fidanzato, la Goldin non cerca una "denuncia femminista" della violenza domestica, solo ritrae il fatto in sé, senza giudizio, come fa colla sessualità fuori dagli schemi, colla droga o coll'AIDS. Uno sguardo oggettivo, molto hopperiano.
E poi foto da discutere, perché dalla rievocazione vengono fuori forse i momenti più interessanti del lavoro, che ovviamente non mira ad essere solo un documentario animato: quando uno dei due attori recupera un ricordo e l'altra lo smentisce, dicendogli che no, non ricorda affatto bene ("la nonna non si è mai tinta i capelli"). Foto in scena che peraltro provengono dal reale archivio di famiglia degli interpreti, apprendiamo dalla madre di Bressan presente fra il pubblico. Ma quindi anche immagini che, nella loro oggettività, in realtà non ci dicono nulla di certo sulla storia, il continuum temporale di cui hanno congelato un attimo.
Peccato che il concetto non venga ulteriormente approfondito, perché avrebbe potuto dar vita a un'interessante riflessione sulla "memoria ricostruita" arbitrariamente dal nostro cervello, sull'impossibilità di conservare un'obiettività sul passato. Purtroppo, la mancanza di una ferma mano registica a guidare l'azione scenica dei due giovani attori (e magari a darle un po' di ritmo, che latita pur in solo un'ora e un quarto di durata) lascia il loro discorso a galleggiare un po' nel vago, fra biografia dell'artista e rielaborazione personale dei due ricordanti in scena, che però non approda da nessuna parte.
"Se risulta fragile, è giusto così", conferma Marina Romondia al termine dello spettacolo, senza con ciò toglierci la sensazione che l'incertezza, le mani stropicciate e le frasi smozzicate non bastino a costruire un discorso, neanche "beckettiano". Anche se rimane lodevole l'originalità dello spunto di partenza e il coraggio di scriversi da sé un testo nuovo, anziché infliggerci l'ennesimo Macbeth/Edipo/Prometeo modernizzato e stiracchiato per fargli dire quello che interessa al regista col pretesto del classico.
Molta musica in scena, coerentemente col coté punk della Goldin, che iniziò a fotografare documentando la vibrabnte scena della new wave newyorkese del passaggio fra '70 e '80 (a lato una sua copertina per un singolo techno del 2000 poi censurata): ovviamente i Velvet Underground usati come colonna sonora nello stesso Ballad of Sexual Dependency, ma anche i post rocker The End of the Ocean, i folk Timber Timbre e la cantautrice Laura Gibson. Molto breve invece la tenitura al Teatro Linguaggicreativi: solo 24 e 25, quindi purtroppo scriviamo a sipario calato.
Di luci ed ombre, di cui in fondo è fatta la fotografia.
Mario G.